Liberazione, 21 maggio 2011, Giorgio Cremaschi.
Milano
è stata per anni la capitale ideologica dell’esaltazione della
flessibilità. Centinaia di migliaia di giovani, e anche meno giovani,
sono entrati nelle nuove professioni, come nelle vecchie, nel lavoro
cognitivo come in quello materiale, sull’onda di una campagna ideologica
che, iniziata con la “Milano da bere” di Bettino Craxi, prometteva
carriere prestigiose e ricchezza a chi, pur nella precarietà, fosse
capace di arrangiarsi. (...)
Questa Milano è stata la base ideologica di
Berlusconi, del suo blocco sociale, del suo modello di società. Ora
questa Milano è profondamente in crisi. Milano è diventata anche la
città della precarietà giovanile, ove intelligenza, cultura e
professionalità sono sprecate e disperse in miriadi di contratti
capestro, siano essi di lavoro dipendente, siano essi partite Iva o
quant'altro. La Milano postfordista è diventata così la Milano di San
Precario, delle mobilitazioni dei giovani, della ricerca delle strade
nuove per la conquista dei diritti e della dignità del lavoro. Anche la
mobilitazione dei disabili, i loro fischi alla Moratti e a Formigoni,
sono il segno di una città e di un mondo del lavoro frantumato e
disperso che si sta riorganizzando e che sicuramente non crede di più
alle favole di Berlusconi, degenerate, è bene ricordarlo, nella risposta
data a una giovane precaria che chiedeva del suo futuro: “sposare un
milionario”. Ma questa città dei lavori nuovi, delle nuove professioni,
improvvisamente due anni fa si è incontrata con la più tradizionale
delle lotte sindacali. Quella dei 50 operai specializzati metalmeccanici
dell’Innse, che dopo una durissima occupazione durata più di un anno,
sono riusciti a vincere la loro vertenza salendo, per primi, sulla loro
gru e inaugurando così un modello di protesta sociale. Davanti ai
cancelli della fabbrica, presidiati da ingenti forze di polizia, in quei
giorni c’erano tantissimi giovani del lavoro precario. Coloro che,
secondo l’ideologia dominante, avrebbero dovuto sentirsi i più lontani
da quella vertenza di operai metalmeccanici. E invece quella lotta
riuscì a mobilitare una solidarietà civile e culturale enorme, che
scosse la città. Il ministro Tremonti, quando gli operai vinsero,
dichiarò che quella era la più bella notizia che aveva ricevuto in
quell’anno. Peccato però che in quei mesi i più tenaci avversari degli
operai, coloro che avevano spinto perché venisse chiusa la fabbrica e
trasformato il tutto in un centro commerciale, erano la giunta di Milano
e, in particolare, la Lega. Sì, proprio quella Lega Nord che si finge
popolare e che quei giorni, di fronte alla lotta dell’Innse, parlò di
esproprio proletario per bocca di un suo esponente di governo. La Milano
civile, la Milano dei diritti di cui parla Pisapia, è anche la Milano
dei diritti del lavoro, quello più antico e quello più nuovo, quello
delle fabbriche come quello del lavoro diffuso nell’informazione e nella
commercializzazione.
A Napoli la questione lavoro è la priorità
delle priorità. Tutto ruota attorno ad essa. Il dilagare del lavoro nero
e del caporalato, delle clientele e delle discriminazioni, che
sfruttano drammaticamente la disoccupazione, hanno creato dei veri e
propri padroni del lavoro, come denuncia De Magistris, che sono figli
dell’intreccio tra criminalità affaristica e criminalità camorrista.
L’attacco ai diritti e al contratto nazionale che in particolare nel
Mezzogiorno è un indispensabile bene comune; l’assenza di interventi,
piani, programmi di investimento per il lavoro e lo sviluppo degni di
questo nome; tutto questo ripropone la questione sociale come la
priorità assoluta della città. Già i lavoratori di Pomigliano hanno
saputo con grande coraggio dire in tanti no al ricatto di Marchionne,
due volte più feroce perché rivolto a un Mezzogiorno nel quale la
distruzione delle fabbriche, come la Fiat ha fatto a Termini Imerese, è
una vera e propria devastazione sociale. In tutta Napoli c’è oggi una
domanda di riscatto che vuol dire una speranza per il lavoro per sé, per
i figli, per il futuro. Il candidato del centrodestra viene dai meandri
della Confindustria napoletana. E’ dunque uno dei principali artefici,
economici prima che politici, del disastro sociale della città.
Presentarlo come il nuovo è un imbroglio misero, privo di qualsiasi
efficacia. A Napoli le lotte per la legalità, il risanamento ambientale,
la giustizia e la democrazia, hanno sempre un preciso riscontro e
versante nella lotta per il lavoro. La mobilitazione del lavoro che si
può mettere in campo mentre si riprogetta e si riorganizza la vita della
città, dalla raccolta differenziata porta a porta fino al rilancio dei
beni comuni e dei beni culturali, tutto questo può sfociare in un vero e
proprio piano per il lavoro. Che naturalmente può essere messo in campo
solo c’è un profondo cambiamento nei gruppi dirigenti della politica.
Ed è questa la speranza che si è raccolta e si sta organizzando attorno a
De Magistris.
E’ vero, Milano e Napoli paiono oggi i poli opposti
della società italiana. Uno il polo della ricchezza e di un modello di
sviluppo che vogliamo cambiare, l’altro il polo della devastazione e
della subalternità quasi coloniale e quello stesso modello di sviluppo.
Milano e Napoli sono le facce opposte della stessa medaglia, esse oggi
assieme rappresentano la crisi di quel modello sociale e culturale che
Berlusconi ha rappresentato politicamente e che con Berlusconi va oggi
in crisi. Per uscire con diritti e democrazia da questa crisi, il
lavoro, il diritto al lavoro e i diritti del lavoro, assieme, possono
fare la differenza decisiva. E la faranno.
Giorgio Cremaschi
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