giovedì 3 novembre 2011

Tutti i nodi di una crisi strutturale


La sostanziale inadeguatezza delle ricette messe sinora in campo per uscire dalla crisi riposa su analisi a loro volta inadeguate. Nel libro “Capitalismo tossico” di Bertorello e Corradi si indagano le ragioni strutturali di una crisi al tempo stesso "classica e inedita".
Marco Zerbino
(Da Micromega)
Economisti e uomini politici, è noto, tendono solitamente a concentrarsi sul breve periodo. I rapporti sull’andamento dell’economia globale pubblicati dai grandi organismi internazionali e dai grandi istituti di ricerca hanno cadenza semestrale, trimestrale, talvolta addirittura mensile, impegnati come sono nel tentativo spasmodico di “auscultare” i mercati, di monitorarne ogni movimento, ogni segnale di incertezza o di ripresa. Ciò è tanto più vero nel contesto attuale di crisi, quando un mezzo punto di Pil in più o in meno può essere determinante nel giustificare analisi e risposte diverse alla domanda delle domande, quella che si ripropone costantemente nelle esternazioni dei capi di governo, negli editoriali dei principali quotidiani e nei commenti televisivi degli esperti: è finita? La crisi economica annunciatasi nel 2007 e poi scoppiata in maniera eclatante nel settembre del 2008 è alle nostre spalle? Oppure il peggio deve ancora venire?
Secondo Marco Bertorello e Danilo Corradi – autori del volume "Capitalismo tossico. Crisi della competizione e modelli alternativi" (Alegre, Roma 2011, pp. 192, € 16,00, con una postfazione di Riccardo Bellofiore) – un simile approccio analitico di breve respiro manifesta tutti i suoi limiti nel momento in cui, terminata l’auscultazione del malato a rischio di cronicizzazione, l’economia mondiale, si passa a tentare di mettere a punto una cura in grado di ridargli salute e vigore. Quella che i due autori identificano come la sostanziale inadeguatezza delle ricette messe sinora in campo per uscire dalla crisi riposa in effetti su analisi e interpretazioni della stessa la cui parzialità interessata costituisce un ostacolo oggettivo sulla via della comprensione dei problemi, come anche su quella della definizione delle soluzioni. Quando le questioni in gioco sono così importanti e pregne di conseguenze per milioni di esseri umani, volare basso, accontentarsi della superficie, può senz’altro risparmiare fatiche e inquietudini, come anche sarcasmi e gravose responsabilità. Avvertiamo da subito il lettore che, al contrario, la “soluzione” alla crisi economica globale proposta da Bertorello e Corradi non è di quelle facili, anzi può apparire oggi tutt’altro che a portata di mano, incentrata com’è su una messa in discussione del capitalismo stesso come sistema economico che lega la produzione e la soddisfazione dei bisogni umani al perseguimento del profitto. Eppure, si tratta di un’indicazione che ha senz’altro il pregio di venire alle prese, senza reticenze, con alcuni nodi fondamentali.
Cappuccetto Rosso Impresa e il Lupo Cattivo Finanza
La grande maggioranza degli economisti, tanto quelli di provata fede liberista quanto quelli di matrice neokeynesiana, di fronte allo scoppio eclatante della crisi hanno concentrato la propria attenzione sulle condotte eccessive e irresponsabili del mondo finanziario. Nei giorni in cui diversi istituti di credito hanno cominciato a scricchiolare sotto la pressione dell’insolvenza dei detentori di mutui subprime, e ancor più quando la crisi si è palesata in tutto il suo carattere devastante con il fallimento della Lehman Brothers, persino coloro che fino a poche settimane prima avevano difeso senza batter ciglio la capacità della finanza di generare benessere per tutti e di favorire l’arricchimento anche degli strati inferiori della società hanno dovuto ammettere che sì, in effetti, le grandi entità del mondo finanziario negli ultimi vent’anni avevano goduto di una manica un po’ troppo larga. Chi aveva appena smesso di dichiarare che «“questa volta”, la medaglia non aveva rovescio, che questa volta il fato era vinto», secondo il tipico adagio già stigmatizzato da Karl Marx più di 150 anni fa [1], chi non aveva perso occasione per teorizzare la capacità dell’economia di mercato di raggiungere una situazione di perfetto equilibrio e per ufficializzare la definitiva chiusura dell’era delle depressioni economiche cicliche, si trovava ora a dover fare i conti con la cruda realtà di una crisi sistemica. Partiva quindi la caccia alla “mela marcia”, di volta in volta identificata con la scarsa regolazione dei mercati finanziari, con le agenzie di rating, le grandi banche, i prodotti derivati o anche, con estremo semplicismo venato di moralismo, con la scarsa responsabilità etica degli operatori economici.
Ben pochi, tuttavia, facevano lo sforzo di considerare gli eventi che precipitosamente avevano condotto all’esplosione dell’ennesima bolla finanziaria all’interno di un quadro più ampio, adottando cioè quello «sguardo da lontano» – le regard éloigné di lévi-straussiana memoria – che Bertorello e Corradi ritengono imprescindibile per comprendere veramente la natura dell’attuale congiuntura economica mondiale. Allontanare l’obiettivo, evitare di soffermarsi in maniera troppo ravvicinata su particolari e dettagli in ultima analisi contingenti, è in effetti fondamentale per far emergere il carattere strutturale della crisi, cioè per andare oltre la vulgata che oppone la «sana» economia reale ad un mondo finanziario «malato» o, secondo l’efficace espressione di Giovanni La Torre, un «Cappuccetto Rosso Impresa» a un «Lupo Cattivo Finanza».
Ma cosa significa dire, come fanno i due autori in linea con quanto spiegato anche da altri economisti di orientamento marxista, che la crisi scoppiata nel 2008 è «strutturale»? Di certo non significa preconizzare «una fine del capitalismo per auto-esaurimento. Una crisi definitiva del capitalismo è per definizione una crisi politica combinata all’emergere di un’alternativa. […] Intendiamo semmai descrivere la crisi come una recessione economica che determina il tramonto di un modello di accumulazione, di un sistema di regolazione e di una gerarchia geopolitica non più estendibili». Significa, in sostanza, far rilevare come l’attuale crisi sia «classica e inedita» allo stesso tempo. Classica, perché presenta molti tratti in comune con le altre recessioni cicliche che il capitalismo ha attraversato nella sua storia ormai secolare. Recessioni la cui origine è in ultima analisi riconducibile a un «eccesso di capitale in presenza di bisogni sociali inevasi crescenti». Per questa via, l’attuale crisi altro non è che una «classica» crisi di sovrapproduzione capitalistica. Ma si tratta anche di una crisi inedita, perché basata su quella «sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito» (secondo la formula coniata dall’economista Riccardo Bellofiore) che, a partire dalla metà degli anni ’90, ha consentito di continuare a ridurre i salari senza ridurre i consumi dei salariati.
Una crisi classica e inedita allo stesso tempo
Il modello di accumulazione le cui contraddizioni sono esplose nel 2008 trova a sua volta origine in una crisi, quella del 1973-74, che palesava l’impossibilità di estendere ulteriormente su basi profittevoli il modello precedente, di stampo keynesiano, sperimentato durante i cosiddetti «trenta gloriosi» (1945-1975). La doppia pressione esercitata sulla redditività del capitale da un lato dall’eccesso di forze produttive e, dall’altro, dall’aumento progressivo dei salari, che nel dopoguerra conquistano quote crescenti di profitto, è, secondo i due autori, la vera causa della crisi di metà anni ’70. Il rincaro del prezzo del petrolio ha in questo contesto tutte le caratteristiche di una semplice aggravante o, meglio, di un detonatore che fa esplodere contraddizioni in realtà già molto mature (un ruolo paragonabile a quello svolto nel 2008 dai mutui subprime). Il sistema si trova, una volta di più, alle prese con il problema di dover rialzare il saggio di profitto, che in realtà è cominciato a scendere ben prima del 1973, e lo fa in maniera particolarmente brutale, favorendo cioè l’avvento di quel nuovo modello di accumulazione, «barbaro e moderno contemporaneamente», che prenderà il nome di globalizzazione neoliberista. La principale «controtendenza» messa in atto dal capitale è quella consistente nell’«aumento del saggio di sfruttamento sul salario diretto e indiretto. Sono le grandi ristrutturazioni industriali degli anni ’80, le privatizzazioni e il ridimensionamento dello Stato sociale degli anni ’90 la leva principale di questo processo». Una gigantesca redistribuzione al contrario della ricchezza che, tuttavia, ottiene inizialmente i suoi scopi: la crisi di metà anni ’70 viene superata e, a partire dalla metà degli anni ’80, il saggio di profitto ricomincia a risalire. Ma il nuovo modello nascondeva in realtà delle contraddizioni enormi: come allontanare in effetti lo spettro di una nuova crisi di sovrapproduzione, tanto più concreto in presenza di una massa salariale decrescente e di un conseguente ristagno dei consumi? È proprio qui, in stretta connessione con le dinamiche e le contraddizioni dell’economia reale che si situa, come rilevano Bertorello e Corradi, l’origine di quella finanza «sregolata» ma «politicamente governata» che «è stata il modo singolare ma efficace per rispondere alla tendenza alla stagnazione da domanda che è l’altra faccia della precarizzazione del lavoro. […] Si afferma un nuovo sistema finanziario che non solo svolge il consueto ruolo di leva, ma che crea un “effetto ricchezza” su cui è possibile allargare il debito privato delle aziende e dei consumatori». Le ragioni della crisi, come è stato ben evidenziato da Bellofiore, risiedono precisamente «in un’interazione tra ristrutturazione dei processi di estrazione di plusvalore, da una parte, e inclusione subalterna delle famiglie dentro il capitale, dall’altra». Alla luce di queste considerazioni, emerge come non sia poi così corretto parlare di una «crisi provocata dai titoli tossici. […] È stato il capitalismo a essere nel suo complesso tossico e a generare quelle tossine finanziarie funzionali a superare i limiti raggiunti nella precedente fase di espansione. Siamo dunque di fronte ad una sorta di lungo rinvio di problemi strutturali che non potevano che riemergere con una intensità superiore».
Goodbye Schumpeter
Ad analisi e interpretazioni della crisi parziali non possono che corrispondere risposte parziali. L’attenta disamina che Bertorello e Corradi conducono, nelle pagine centrali del volume, delle risposte messe in campo dall’establishment politico ed economico per superare la crisi sembra in effetti confermare il loro assunto di partenza. Nell’epoca del capitalismo dopato, in cui la “sana” economia reale sembra avere un disperato bisogno della droga del debito per continuare a fare profitti, gli appelli alla regolazione finanziaria rischiano di risolversi in null’altro che petizioni di principio. Le vicende legate alle trattative per l’accordo di Basilea 3 e al tentativo, fallito, di introdurre nuove regole stringenti per la finanza rimandano in definitiva alla natura di un sistema economico in cui il ruolo del credito è sempre più consustanziale alle dinamiche della crescita. Né appare convincente, secondo i due autori, l’insistenza di tanti economisti e policy-makers sulla necessità di affidarsi alla ricerca e all’innovazione per imitare casi virtuosi come quello della Germania, ovvero per «ricentrare» l’economia sulla produzione manifatturiera ad alto valore aggiunto anziché sulla speculazione. Alla discussione critica dell’«illusione tedesca» Bertorello e Corradi dedicano diverse pagine, argomentando in direzione opposta a chi sostiene una possibile generalizzazione di quel modello e una sua replicabilità da parte di altri paesi. E questo non solo perché la Germania è caratterizzata da assetti e specializzazioni produttive costruite nel corso di decenni e difficilmente imitabili da economie strutturalmente molto più deboli come, ad esempio, quella italiana, ma anche perché una generalizzazione del modello tedesco, tutto incentrato sulle esportazioni, porrebbe il problema dei livelli della domanda: «di una sola Germania si vedono gli sbocchi commerciali, di tante invece no».
Più in generale, dietro l’inadeguatezza e la scarsa efficacia delle politiche volte a contrastare la crisi messe in atto da governi e istituzioni economiche internazionali si cela una contraddizione che i difensori dell’attuale sistema non hanno, del tutto comprensibilmente, alcuna voglia di affrontare. Per sopravvivere il capitalismo contemporaneo deve puntellarsi in diversi modi, non ultimo quello del ricorso alla droga finanziaria: «È un meccanismo in costante affanno che fatica a trovare nuove terre vergini da assoggettare, da mettere a valore, mentre quelle vecchie sono state ormai spremute al punto da non essere in grado di rilanciare periodi di prosperità». Non solo: il capitalismo contemporaneo deve smentire le sue leggi fondanti: «il libero mercato agisce con le sue regole su tutti i fattori eccezion fatta per il grande capitale e l’impresa, esonerati dal farsi carico degli effetti di leggi presentate come universali». Secondo i due autori è il tramonto definitivo della schumpeteriana «distruzione creatrice»: lo sviluppo del capitale ha prodotto oggi imprese too big to fail, troppo grandi per fallire, secondo l’espressione divenuta di uso comune nel dibattito pubblico all’indomani dell’esplosione della crisi finanziaria: «dalla distruzione che dava nuovo vigore ai meccanismi di accumulazione si è giunti al divieto di distruggere per continuare a traccheggiare, per evitare il peggio». È l’avvento di un nuovo modello di impresa che rinuncia ad un ruolo attivo e, appunto, creativo, e che scarica tutti i restanti costi sugli altri fattori, lavoro in primis. La ricerca costante del costo minore produce la messa all’asta del lavoro su scala internazionale. Un lavoro, va da sé, sempre più indebolito e frammentato, bersaglio privilegiato di un modello di impresa ben esemplificato dalla Fiat di Marchionne e dal ricatto “occupazione in cambio di diritti” che gli operai di Pomigliano e Mirafiori hanno rispedito al mittente con i referendum dello scorso anno.
Quale via d’uscita?
Quanto appena detto significa che il capitalismo odierno è sempre più severo, sempre più esigente, sempre meno disposto a concedere riforme o redistribuzioni di sorta. Se è la logica della competitività estrema quella che tende a prevalere, affermando una centralità dell’impresa che fagocita nel vortice dell’impoverimento settori sociali sempre più estesi, e se è nello spazio globale che si attuano i processi di valorizzazione del capitale basati sulla costante compressione dei costi, ne consegue che anche la risposta, che per Bertorello e Corradi consiste fondamentalmente nel «far emergere una nuova parzialità», quella del lavoro, va pensata su scala globale. Si tratta cioè di introdurre il tema della «soggettivizzazione di un nuovo proletariato che costringa gli altri a farvi i conti, a misurarsi con interessi insopprimibili a cui il sistema deve saper dare risposte, cosicché la crisi non sarà più endogena ai meccanismi economico-finanziari, ma sarà sviluppata da attori sociali, che sperimenteranno nuove formule della convivenza». La prospettiva che i due autori intendono contribuire a costruire è allora quella di mettere in moto «un processo contro la competitività, capace di sottrarre al mercato quote crescenti di produzione e distribuzione di ricchezza, in grado di proporre un nuovo umanesimo incentrato su criteri di solidarietà sociale e uguaglianza». Un programma di fondo in grado di «sconfiggere il dominio del principio competitivo».
È così che Bertorello e Corradi si avventurano, nelle battute conclusive del volume, ad immaginare la costruzione di una «nuova» soggettività operaia tramite «inedite saldature tra i lavoratori di diversi paesi». Ne risulta anche l’abbozzo di alcune «questioni generali» capaci di convogliare le singole resistenze che si producono localmente verso una progettualità complessiva. Non è qui il caso di entrare nel dettaglio di queste proposte, tutte opportune e condivisibili. Spiace solo dover constatare, a fronte del rigore teorico e analitico che pervade tutto il testo, una certa inclinazione verso alcune posture concettuali e terminologiche all’insegna dell’«oltre» e del «nuovo» molto in voga una decina di anni fa, all’epoca del primo esplodere del movimento antiglobalizzazione. Perché tanto insistere, ad esempio, sul concetto di non meglio identificati «corpi sociali» le cui «nuove forme di organizzazione» avrebbero la priorità assoluta su qualsiasi articolazione programmatica? Perché affermare che «il programma del cambiamento paradossalmente non esiste, mentre possono esistere i soggetti del cambiamento» salvo proporre qualche pagina dopo un «programma di fondo» incentrato sulla rimessa in discussione del principio competitivo? E per quale motivo la soggettività del lavoro chiamata a contrastare il dominio del capitale dovrebbe identificarsi con un «nuovo» proletariato? Perché le saldature tra i lavoratori dei diversi paesi sarebbero «inedite», quando è noto che il movimento operaio è nato su basi e su parole d’ordine internazionaliste? Una certa propensione all’uso estensivo delle categorie del «nuovo» e del «sociale» in realtà non ci sembra sufficientemente motivata, ma si tratta in fondo di un aspetto marginale all’interno di un lavoro decisamente interessante e stimolante.
[1] K. Marx, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti a cura di Vladimiro Giacché, DeriveApprodi, Roma 2009, p. 14.
(3 novembre 2011)

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