martedì 29 novembre 2011

Magri, il comunista intelligente


Scompare uno dei fondatori del manifesto e dirigente della prima Rifondazione comunista. Una testa pensante, innamorata del Pci che però ha saputo anche criticare. Articoli di Salvatore Cannavò e Antonio Moscato
Suicidio assistito in Svizzera. E' morto così, a 79 anni, Lucio Magri, fondatore de "il manifesto" e protagonista della sinistra eretica. "Non voglio funerali, per carità, tutte quelle inutili commemorazioni. Necrologi manco a parlarne», si legge su Repubblica che gli dedica due pagine ripercorrendo la sua «storia a sinistra fuori dagli schemi». «Morto per sua volontà, perchè vivere gli era diventato intollerabile», prosegue l'articolo. «Una depressione vera, incurabile. Un lento scivolare nel buio provocato da un intreccio di ragioni, pubbliche e private. Sul fallimento politico - conclamato, evidentissimo - s'era innestato il dolore privato per la perdita di una moglie molto amata, Mara, che era il suo filtro con il mondo".
Si spegne un personaggio ormai non più molto conosciuto, distante dalle pagine dei giornali e soprattutto dagli schermi tv ma che ha animato diverse stagioni della sinistra italiana. Prima come giovane dirigente del Pci, infatuato da Togliatti come ricorda più in basso Antonio Moscato. A quella storia ha consacrato il suo libro più importante, "Il sarto di Ulm" in cui il riconoscimento politico all'esperienza originale del "comunismo italiano" è ribadita senza molte incertezze. Quella resterà la formazione di fondo e, di fronte allo spaesamento provocato dalla rovinosa sconfitta della sinistra italiana degli ultimi anni, sarà anche un riferimento orgoglioso per chi non ha mai voluto smettere di definirsi "comunista". In un'accezione che è sempre stata, a parere di chi scrive, un appiglio identitario e salvifico più che uno strumento per costruire novità.
Esiste però la seconda stagione di Lucio Magri, la fondazione del "manifesto", la rottura con quel Pci sull'onda dell'invasione sovietica di Praga e l'esperienza degli anni 70 condotta in larga parte alla guida del Partito di unità proletaria (Pdup) forse la formazione più moderata della "nuova sinistra" italiana, quella che ha sempre evitato di rompere il cordone ombelicale con il Pci, ma anche molto attenta al dibattito culturale e al rapporto con il sindacato e i movimenti. Nel Pci, Magri e il suo Pdup rientrano nel 1984, sull'onda della "svolta a sinistra" di Enrico Berlinguer, illusione di un nuovo corso del Pci. Che non ci sarà. Avverrà invece la disfatta, il cambio di nome, l'avvento della linea "liberal" e la rottura di Garavini e Cossutta. Dopo le prime esitazioni, Magri sceglie la strada della "rifondazione comunista" e affronta la terza stagione della sua vita politica. A un certo punto è anche in lizza per l'incarico di segretario generale di Rifondazione comunista - terrà lui la relazione al secondo congresso del partito - ma insieme a Cossutta contribuisce a scegliere Fausto Bertinotti.
L'idea del legame inestricabile con "l'altra sinistra", a quel tempo il Pds, resta però una bussola, ereditata dalle concezioni maturate negli anni giovanili. Ed è in nome di questa impostazione che nel 1995 Lucio Magri uscirà insieme ai Comunisti unitari dal Prc per sostenere il governo Dini, "baciando il rospo" come titolo allora il manifesto anch'egli a sostegno di quella scelta. Da lì in avanti, il suo impegno partitico si esaurisce, diventa compagno di riferimento per un'area politica sempre più ristretta e si riserva un po' alla volta un ruolo anomalo di vecchio saggio, molto restio a dispensare consigli all'umanità intera. Scrive il suo libro più importante, frequenta i corridoi del Parlamento per capire che aria tira ma partecipa poco a convegni e dibattiti. Scrive ancora di meno. L'amarezza per la fine della sinistra, come ha avuto modo di dirci più volte, si prende tutto lo spazio.
Uomo di grande intelligenza e disponibilità, una vera "testa pensante", lascia in eredità la forza umana del suo ultimo gesto. Un motivo in più per rispettarne la scomparsa e onorarne, nonostante differenze e distanza generazionale, la vita politica
Salvatore Cannavò


È arrivata improvvisa la notizia che Lucio Magri ha deciso con discrezione di chiudere la sua vita. Ho ovviamente il massimo rispetto per questa sua scelta, a cui ho d’altra parte spesso pensato io stesso come “uscita di sicurezza” una volta esaurite le forze vitali e la lucidità (ero stato per giunta colpito e rafforzato in questa idea da quanto scriveva Lev Trotskij nel suo Diario del 1935). Ma naturalmente ciò non esclude che lo si possa ricordare senza l’ipocrisia dei “coccodrilli”, i necrologi convenzionali.
In un’ampia recensione a un suo libro molto interessante, Il sarto di Ulm, avevo ricordato che avevo “conosciuto personalmente Lucio Magri nel 1966, durante l’XI congresso [del PCI], nel quale eravamo impegnati nella stessa battaglia; non su tutto, già allora, ci trovammo d’accordo in una discussione a cui l’avevo invitato nella mia sezione. In quel momento le differenze di valutazione tra noi erano state sulla strategia del PCI, in particolare nel sindacato, ma successivamente, pur leggendolo con interesse e apprezzando molto la sua intelligenza, ho verificato più volte una divergenza profonda su alcuni momenti cruciali della storia del movimento comunista, in particolare sui fronti popolari, e sulla svolta di Salerno”. E avevo aggiunto che, “anche se in modo più articolato e complesso che in altri scritti del passato”, le differenze di valutazione emergevano anche in quel libro.
Di quell’incontro lontano avevo parlato anche in una relazione a un convegno, ugualmente inserita sul sito col titolo: Una sezione del PCI nel 1956, che in realtà ricostruiva le vicende di quella atipica sezione, baluardo dell’ingraismo, anche in una decina di anni successivi.
Rileggendo quanto avevo scritto, mi accorgo che avevo concentrato l’attenzione sul rapporto con lo stalinismo e in particolare col suo principale interprete (e intelligente ancorché cinico “traduttore”) Palmiro Togliatti, verso il quale Magri aveva un’indulgenza particolare, forse perché negli ultimi anni di vita e di attività il segretario generale del PCI aveva usato largamente la capacità di scrittura e di elaborazione teorica di quel giovane di provenienza cattolica. Infatti Togliatti usava, prima di una relazione a un congresso, o a una sessione importante del Comitato Centrale, chiedere ad alcuni dirigenti che stimava delle relazioni su singoli temi, che poi tagliava, modificava, usava come traccia o incorporava direttamente nel testo che appariva su “l’Unità”. E Magri, che era allora indubbiamente il più giovane di questi collaboratori, aveva apprezzato evidentemente di essere stato prescelto e di aver contribuito sistematicamente alle relazioni del “Migliore”.
Rileggendo quanto avevo scritto in particolare in Magri, Ulm e lo stalinismo mi accorgo che il giudizio su di lui, a volte severo, era sempre intrecciato a un riconoscimento della sua intelligenza. Posso aggiungere una parziale autocritica: nel primo scontro del 1966, forse avevo sottovalutato lo spirito con cui Magri esaltava le lotte aziendali e di reparto. Indubbiamente lui ne riconosceva il significato di preannuncio della grande ondata operaia dei contratti del 1969, mentre a me pareva che ci fosse già il rischio di una dispersione delle forze in mille rivoli, lasciando che alcune fabbriche più forti si muovessero da sole, come accadde poi dalla metà degli anni Settanta, per responsabilità di quella “sinistra sindacale” a cui Magri era vicino ed affine, e che stava consolidando le sue posizioni nella CGIL e in alcuni settori della CISL e della UIL.
Ma nel complesso, soprattutto nella recensione al suo ultimo libro, avevo identificato bene i limiti della sua concezione: la valutazione della gravità del Patto Ribbentrop-Molotov e delle sue ripercussioni sui partiti comunisti europei; le “democrazie popolari”, crimine ma anche tallone d’Achille del sistema staliniano; la vicenda della Grecia (da cui il comunismo in quel paese non si è mai ripreso) e il carattere secondo lui autoctono del “partito nuovo”, che invece era stato proposto proprio da Stalin per tutti i paesi occidentali a cui la spartizione del mondo doveva imporre la rinuncia alla rivoluzione.
Avevo dimenticato forse un altro aspetto, che è quello per cui nell’arco di vari decenni ho polemizzato di più con Lucio Magri: la sua liquidazione dell’esperienza complessa e contraddittoria della Terza Internazionale con il termine onnicomprensivo di “terzinternazionalismo”, che metteva sullo stesso piano la penosa involuzione staliniana degli anni Trenta e i primi quattro o cinque anni in cui si era realizzato invece uno straordinario luogo di dibattiti in cui si confrontavano grandi figure del movimento operaio, di diverse provenienze, da Lenin, Trotskij, Bucharin a Gramsci, Bordiga, Serrati e Terracini, da Pannekoek a Brandler e Ruth Fischer, da Tan Malaka a Roy Manabendra Nath, e così via. Non mi preoccupava tanto l’indulgenza, che pure in Magri vi fu, verso alcuni momenti congressuali già subordinati alle esigenze tattiche della burocrazia staliniana, come il VI e soprattutto il VII congresso, quanto la cancellazione totale di quella eccezionale stagione di discussioni aperte e non rituali e della sua ricchissima elaborazione (sul Fronte Unico, sul controllo operaio, ecc.) nel corso dei primi anni.
Ma la mia polemica costante con Lucio Magri era legata al fatto che mi sembrava un esemplare perfetto di “centrista”: il termine è ormai caduto in disuso e dimenticato (o usato per definire l’incredibile terzetto di ciarlatani Casini, Fini e Rutelli), ma era la definizione classica con cui Lenin o Trotskij caratterizzavano i Kautsky o gli austro marxisti come Otto Bauer o Fritz Adler (veri giganti del pensiero rispetto alla socialdemocrazia attuale e al “comunismo” stalinizzato degli ultimi decenni) che cercavano di “superare i limiti” del bolscevismo e del riformismo bernsteiniano e che per qualche tempo diedero vita a un’impossibile internazionale “due e mezzo”, prima di tornare all’ovile nella vecchia Seconda Internazionale. Ne ho parlato a lungo in La socialdemocrazia e la rivoluzione russa, e a quello scritto rimando.
Ma il termine andrebbe recuperato, per indicare i tanti (a partire dal 90% del residuo gruppo de “il manifesto”) che fanno analisi lucide e profonde, apparentemente rivoluzionarie, ma poi non esitano a proporre di “baciare il rospo”. Magri, nel suo breve passaggio nel PRC, lo fece e si portò dietro nella sua uscita un bel po’ di compagni (e di deputati). Oggi sono in tanti a essere nuovamente tentati, se non dall’appoggio esplicito al governo Monti-Intesa, almeno da un’attenuazione delle polemiche, nella speranza di condizionare quel governo, e di avere “un male minore”… Solo per questo, contro la consuetudine, non ho rinunciato alla polemica post mortem.
PS. Oggi è apparsa anche la notizia della morte di Saverio Tutino, che fu per me anche un caro amico. Lo ricorderò prossimamente, riprendendo qualcuna delle sue vecchie illuminanti analisi (e testimonianze) sull’Ottobre cubano.
(a.m. 29/11/11)

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