A quasi due mesi dall'ultima grande manifestazione, gli "indignados" israeliani tornano stasera in piazza. Speranze per la nuova fase che il movimento sta affrontando.
GIORGIA GRIFONI

“No. Mi aspettavo più democrazia –confessa Stav Shaffir, 26 anni, una
dei leader del movimento J14-ci si aspetta che, dopo aver portato in
piazza mezzo milione di persone su una popolazione di 7 milioni, il
giorno dopo si veda il cambiamento. Ma non succede nulla. Nonostante
quello che tu faccia, non hai alcuna influenza sul potere. Questo è
molto deprimente. E non è vera democrazia”. Si riferisce alle risposte
quasi nulle del Governo. Il rapporto Trajtenberg che, pur avendo
annunciato grandi tagli al budget militare, non offre una reale
soluzione ai problemi che sono al cuore della protesta. “Cos’è un
rapporto?- si chiede Stav- E’ come fare un rapporto sulla situazione dei
cetrioli in Polonia: non c’è alcun obbligo di cambiare la situazione.
Sembra professionale, fa un buon ritratto dei problemi del paese, ma non
propone alcuna soluzione. Non possiamo semplicemente andare a casa dopo
il rapporto”.
Se Stav non è contenta delle dinamiche apparentemente lente di un
movimento di contestazione, al capo sud della città -una zona che
sicuramente non è splendente come il Boulevard Rotschild dove le
proteste sono inziate- Shula Keshet, attivista da una vita, guarda con
ottimismo al movimento. “Sono soddisfatta di molte cose –annuncia Shula-
ma principalmente della nostra influenza nel movimento”. “Nostra” si
riferisce alla tendopoli che lei ha messo in piedi nel parco Levinsky,
quartiere Neve Sha’anan, uno dei più poveri della città: qui, di bianchi
Ashkhenazi come i ragazzi di Rotschild se ne vedono pochi. Ebrei
Mizrahi, Etiopi, Palestinesi, rifugiati politici, immigrati provenienti
dall’Africa, barboni e drogati: è questo il calderone nel quartiere, per
un totale di problemi che vanno ben oltre gli alti costi degli alloggi
nel centro-nord della città. “Qui-spiega Shula- la questione non è se
potersi permettere di pagare 5.000 shekel o meno: qui c’è gente che non
arriva a 1000 shekel al mese. C’è gente che combatte contro la
discriminazione, la povertà, l’occupazione culturale e il dislivello
economico con la comunità privilegiata d’israele, e cioè gli
Ashkenazi”.


Nonostante questo dislivello rappresentativo, Stav Shaffir ci tiene a
rassicurare sui veri obiettivi del movimento: “Dobbiamo ricostruire una
società israeliana basata sull’uguaglianza e sulla giustizia sociale.
Bisogna ristabilire la solidarietà tra le diverse comunità. In Israele
ci sono molti conflitti, non solo quello con i Palestinesi. Tra le
classi sociali, tra gli ebrei di diversa provenienza, tra gli ortodossi e
i laici. Bisogna ricostruire i ponti che ci legano”. Ma in questo
trionfo di solidarietà e diritti base, qual è il posto dei palestinesi
che vivono sotto occupazione israeliana? “Bisogna capire- precisa Stav-
che questa è una società post-traumatica. La gente si sveglia al mattino
e si chiede chi li attaccherà, se l’Iran o i Palestinesi. Io stessa, a
volte, ho paura di prendere l’autobus. E’ un conflitto che sta andando
avanti da troppo tempo, e non ci sarà soluzione se la società resta
divisa”. Cominciare dalle fondamenta per poi arrivare al tetto: così la
vede Stav. Shula la pensa diversamente: “Credo che dovremmo lottare per
tutte le questioni, non prima una e poi l’altra. C’è un nesso, secondo
me, tra il dire che i Palestinesi sono il nemico e il nostro
comportamento verso gli ebrei che non sono Ashkenazi. Il mio gruppo, che
va aldilà del gruppo Levinsky, lavora anche con i Palestinesi,
soprattutto con le donne. Vedo l’occupazione nei confronti dei
palestinesi e vedo anche l’occupazione nei miei confronti. Credo sia
tutto connesso”. C’è chi la pensa in maniera completamente diversa: “Ci
sono molte persone all’interno del J14-spiega Nadav Franckovich, 30
anni, attivista nel movimento- che dibattono sulla possibilità di
affrontare pubblicamente il tema dell’occupazione e delle colonie: molti
sono d’accordo sul il fatto che non c’è giustizia sociale senza
giustizia per i palestinesi nei territori occupati. Ma l’occupazione non
finirà a causa di un movimento interno. C’è bisogno di una grande
pressione dall’esterno. I coloni stanno aspettando che qualcuno in
questo movimento dica apertamente che è contro l’occupazione e le
colonie: così morirà. Verrà tacciato di antisionismo e quasi tutti lo
abbandoneranno”.

A chi è depresso perché non vede un cambiamento immediato risponde
Shula. “Un giorno Vicki Shiran, una grande attivista femminista mizrachi
mi ha detto: sai, a volte la gente si arrende perché non vede il
cambiamento nel momento in cui sta lottando. Ma lottare è come grattare
un muro con le unghie: piano piano fai un buco. E alla fine il muro
crolla”. Nena News
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