A quasi due mesi dall'ultima grande manifestazione, gli "indignados" israeliani tornano stasera in piazza. Speranze per la nuova fase che il movimento sta affrontando.
GIORGIA GRIFONI
Tel
Aviv, 29 ottobre 2011, Nena News- Democrazia, giustizia sociale,
diritti umani. Slogan che si sono succeduti per mesi nelle strade di Tel
Aviv, durante l’estate degli “indignados” israeliani. Con mezzo milione
di persone scese in piazza durante l’ultima grande manifestazione del 4
settembre scorso, hanno dimostrato al Governo che loro ci sono, e che
si aspettano un cambiamento. Netanyahu ha a malapena risposto con un
rapporto sull’economia, e ha fatto sì che un evento di grande spessore
come la liberazione di Gilad Shalit distogliesse l’attenzione dalle
proteste. All’alba di una nuova, grande manifestazione nazionale, viene
da chiedersi se la protesta stia andando veramente nella direzione in
cui la si immaginava.
“No. Mi aspettavo più democrazia –confessa Stav Shaffir, 26 anni, una
dei leader del movimento J14-ci si aspetta che, dopo aver portato in
piazza mezzo milione di persone su una popolazione di 7 milioni, il
giorno dopo si veda il cambiamento. Ma non succede nulla. Nonostante
quello che tu faccia, non hai alcuna influenza sul potere. Questo è
molto deprimente. E non è vera democrazia”. Si riferisce alle risposte
quasi nulle del Governo. Il rapporto Trajtenberg che, pur avendo
annunciato grandi tagli al budget militare, non offre una reale
soluzione ai problemi che sono al cuore della protesta. “Cos’è un
rapporto?- si chiede Stav- E’ come fare un rapporto sulla situazione dei
cetrioli in Polonia: non c’è alcun obbligo di cambiare la situazione.
Sembra professionale, fa un buon ritratto dei problemi del paese, ma non
propone alcuna soluzione. Non possiamo semplicemente andare a casa dopo
il rapporto”.
Se Stav non è contenta delle dinamiche apparentemente lente di un
movimento di contestazione, al capo sud della città -una zona che
sicuramente non è splendente come il Boulevard Rotschild dove le
proteste sono inziate- Shula Keshet, attivista da una vita, guarda con
ottimismo al movimento. “Sono soddisfatta di molte cose –annuncia Shula-
ma principalmente della nostra influenza nel movimento”. “Nostra” si
riferisce alla tendopoli che lei ha messo in piedi nel parco Levinsky,
quartiere Neve Sha’anan, uno dei più poveri della città: qui, di bianchi
Ashkhenazi come i ragazzi di Rotschild se ne vedono pochi. Ebrei
Mizrahi, Etiopi, Palestinesi, rifugiati politici, immigrati provenienti
dall’Africa, barboni e drogati: è questo il calderone nel quartiere, per
un totale di problemi che vanno ben oltre gli alti costi degli alloggi
nel centro-nord della città. “Qui-spiega Shula- la questione non è se
potersi permettere di pagare 5.000 shekel o meno: qui c’è gente che non
arriva a 1000 shekel al mese. C’è gente che combatte contro la
discriminazione, la povertà, l’occupazione culturale e il dislivello
economico con la comunità privilegiata d’israele, e cioè gli
Ashkenazi”.
E’
stata l’istituzione del campo Levinsky a dare impulso a tutta una serie
di tendopoli nel paese. Un’ardua impresa, le quattro volte in cui è
stato smantellato dall’esercito. E tenacemente rimesso in piedi. “Quando
hanno smantellato tutte le tendopoli, un paio di settimane fa –continua
Shula- il sindaco Ron Huldai ha deciso di tenere anche in piedi solo
quelle di Giaffa e Ha-Tiqva perché lì c’erano molti senzatetto. Gli ho
ricordato che anche a Levinsky era così: ha risposto che qui non ci sono
ebrei. Io sono l’unica persona che ha avuto una multa dal comune per
aver piantato la propria tenda durante le proteste: Daphni Leef
sicuramente non dovrà pagare 475 shekels come me”. A parte le difficoltà
e la discriminazione subita, Shula è contenta che il suo gruppo abbia
aderito al movimento: “Ci ha dato molta visibilità, e noi abbiamo
insegnato molto ai ragazzi di Rotschild: adesso anche loro capiscono e
si identificano con la nostra protesta contro la discriminazione. E’
facile per loro dire: siamo tutti uguali, ma non lo siamo. Certo,
possiamo essere solidali l’uno con l’altro, ma se io sono una donna
mizrahi indigente, non sono uguale a una donna ashkenazi della classe
media. Questa discriminazione si vede anche nella protesta stessa: il
Governo decide a chi dare l’autorizzazione per mettere un enorme palco
in piazza, e chi arrestare semplicemente perchè cammina sull’erba nel
parco Levinsky. Stiamo educando il movimento”.
Nonostante
anche Stav Shaffir dichiari che “la protesta, e in particolare un
semplice bisogno come quello di avere un tetto sulla propria testa, ha
unito tutte le comunità del paese e ha permesso loro di trovare un
terreno comune”- rimangono comunque molti interrogativi. Uno di questi è
la presenza di non-Ashkenazi tra i cosiddetti “leader” del J14.
“Abbiamo proposto ai leader- spiega Shula- di aggiungere anche una
nostra rappresentanza, per avere un’effettiva uguaglianza sul piano
organizzativo. Ma dai vertici del movimento non è arrivata alcuna
risposta. Con i media che si concentrano solo sui manifestanti della
classe media, la discriminazione si ripropone su più livelli. In che
tipo di cambiamento puoi sperare se gioà dall’inizio hai questa
gerarchia? Questa non è una rivoluzione, ma una copia della classe
dirigente israeliana: non vogliono cedere i loro privilegi”. Si sentono
ignorati dagli altri manifestanti sotto questo punto di vista? “Questo è
peggio che ignorare- dichiara Shula- è usare la nostra situazione, la
nostra povertà per parlare al posto nostro. Non vogliono un’equa
rappresentazione. E’ terribile, perché il fatto di essere considerati
così tanto dai media da’ loro molto potere. Certo, sono interessata a
quello che hanno da dire, ma ci sono anche altre voci: che si facciano
un po’ da parte”.
Nonostante questo dislivello rappresentativo, Stav Shaffir ci tiene a
rassicurare sui veri obiettivi del movimento: “Dobbiamo ricostruire una
società israeliana basata sull’uguaglianza e sulla giustizia sociale.
Bisogna ristabilire la solidarietà tra le diverse comunità. In Israele
ci sono molti conflitti, non solo quello con i Palestinesi. Tra le
classi sociali, tra gli ebrei di diversa provenienza, tra gli ortodossi e
i laici. Bisogna ricostruire i ponti che ci legano”. Ma in questo
trionfo di solidarietà e diritti base, qual è il posto dei palestinesi
che vivono sotto occupazione israeliana? “Bisogna capire- precisa Stav-
che questa è una società post-traumatica. La gente si sveglia al mattino
e si chiede chi li attaccherà, se l’Iran o i Palestinesi. Io stessa, a
volte, ho paura di prendere l’autobus. E’ un conflitto che sta andando
avanti da troppo tempo, e non ci sarà soluzione se la società resta
divisa”. Cominciare dalle fondamenta per poi arrivare al tetto: così la
vede Stav. Shula la pensa diversamente: “Credo che dovremmo lottare per
tutte le questioni, non prima una e poi l’altra. C’è un nesso, secondo
me, tra il dire che i Palestinesi sono il nemico e il nostro
comportamento verso gli ebrei che non sono Ashkenazi. Il mio gruppo, che
va aldilà del gruppo Levinsky, lavora anche con i Palestinesi,
soprattutto con le donne. Vedo l’occupazione nei confronti dei
palestinesi e vedo anche l’occupazione nei miei confronti. Credo sia
tutto connesso”. C’è chi la pensa in maniera completamente diversa: “Ci
sono molte persone all’interno del J14-spiega Nadav Franckovich, 30
anni, attivista nel movimento- che dibattono sulla possibilità di
affrontare pubblicamente il tema dell’occupazione e delle colonie: molti
sono d’accordo sul il fatto che non c’è giustizia sociale senza
giustizia per i palestinesi nei territori occupati. Ma l’occupazione non
finirà a causa di un movimento interno. C’è bisogno di una grande
pressione dall’esterno. I coloni stanno aspettando che qualcuno in
questo movimento dica apertamente che è contro l’occupazione e le
colonie: così morirà. Verrà tacciato di antisionismo e quasi tutti lo
abbandoneranno”.
Le
opinioni sono divise anche sull’evoluzione del movimento. C’è chi pensa
che debba trasformarsi in partito, per poter veramente sfidare il
potere. “I sondaggi indicano –spiega Nadav- che un partito sulla base
del movimento penderebbe il 25% dei voti. Molti dei voti verrebbero dai
tradizionali sostenitori di alcuni partiti di destra, come il Likud e lo
Shas, che si sono avvicinati al movimento in un secondo momento e
sentono molto il peso del caro affitti”. Anche Shula pensa che sia una
buona idea: “Credo che sia una buona opzione. Ma per essere veramente un
partito di giustizia sociale, chiedo che ci sia un’equa rappresentanza
tra tutte le comunità”. Stav però non è d’accordo: “Penso che un
partito sia qualcosa che escluda la democrazia. Molti dei ministri che
ho incontrato mi hanno detto che per cambiare veramente le cose, dovrei
entrare nella Knesset. Ma loro dovrebbero farmi sentire come se io
avessi un certo potere, in quanto cittadina. Dov’è il ruolo del popolo?
Si tratta solo di pagare le tasse e fare il servizio militare, senza
ricevere nulla in cambio?”
A chi è depresso perché non vede un cambiamento immediato risponde
Shula. “Un giorno Vicki Shiran, una grande attivista femminista mizrachi
mi ha detto: sai, a volte la gente si arrende perché non vede il
cambiamento nel momento in cui sta lottando. Ma lottare è come grattare
un muro con le unghie: piano piano fai un buco. E alla fine il muro
crolla”. Nena News
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