giovedì 20 ottobre 2011

Cos'è davvero efficace?

Come si può costruire un movimento, ottenere vittorie, creare organizzazione, garantirsi democrazia? La rabbia è solo forma oppure diventa politica? Non esistono risposte facili ma è importante iniziare a discuterne

Salvatore Cannavò
L'esito della manifestazione del 15 ottobre occuperà per molto tempo il dibattito nei movimenti e tra di loro. Già in questi giorni sono visibili polemiche, accuse e contro accuse, utilizzo strumentale dei media per attacchi indiretti a questo o quel settore. Eppure la portata di quanto accaduto consiglierebbe una riflessione più accurata, di fondo, sulle dinamiche dei movimenti di massa degli ultimi anni, sulle parole, gli slogan, gli immaginari accesi per capire davvero cosa sono, cosa devono essere i movimenti e quali obiettivi credibili e anche meno immediati darsi. In questo senso può essere utile interrogarsi su quale sia davvero l'efficacia dei movimenti e quindi a cosa puntare quando ci si organizza, si scende in piazza magari per non tornare a casa.
Gli scontri del 15 ottobre, a leggere in rete i commenti di chi li ha "apprezzati" o magari li ha anche fatti, costituiscono l'espressione di una "rabbia" diffusa, dura, corposa che prima o poi, si legge, doveva manifestarsi in qualche modo. Un “moderato” della sinistra come Valentino Parlato, ha anche scritto che è bene che sia accaduto (vedi qui).

Siamo tra coloro che pur non condividendo in nulla quegli episodi e ritenendo che siano serviti a sequestrare il movimento, determinandolo dall’esterno, vogliono però capire. Le immagini di quel ragazzo della provincia romana, detto "Er Pelliccia" arrestato per il lancio dell'estintore, ad esempio, possono essere utili nel loro duplice messaggio. Da un lato, infatti, raccontano della "banalità" della protesta, agita da ragazzi qualunque, non per forza inquadrati in chissà quali mitiche falangi. Dall'altro mostrano, però, il vicolo cieco della rabbia, manifestata con violenza e arroganza nella piazza di sabato e poi smentita, quasi rinnegata, il lunedì in presenza dei carabinieri alla porta. Che efficacia sociale e politica può avere una simile solitudine disperata che si fa forza del “teatro dello scontro” e poi appassisce una volta spenti i riflettori? Se ci sono soggetti che possono dire di aver ottenuto una vittoria politica nella giornata di sabato – e ci sono, soprattutto in relazione agli altri settori del movimento - quella “vittoria” non può però essere incassata da soggetti sociali concreti. Fa bene il coordinamento dei migranti di Bologna a dire che quella non era una piazza per migranti (vedi qui). Così come non lo era per studenti o per operai. Quella piazza ricorda lo stadio, quando alla partita si muove una massa incontrollabile e fortissima e il giorno dopo la rappresentazione ognuno se ne ritorna a casa. Da solo. La logica di quello scontro è questa. Chi ha innescato quella dinamica può anche bearsi della grande visibilità ottenuta ma il "potere" se ne infischia di quella rappresentazione, anzi si appresta felice a reprimerla per reprimere tutto il resto.
Sia chiaro, nel conflitto gli scontri ci sono sempre stati e ci saranno sempre. E a volte sono inevitabili e addirittura necessari. Ma solo se riepilogano forma e contenuto, mezzo e fine, altrimenti diventano un'etichetta che si può anche esibire con fierezza forgiando un'identità ribelle ma che non ha efficacia sociale. La crisi è lì e guarda con disinteresse.
Ma ci sono anche altri "miti" da sfatare, altre astrazioni che purtroppo hanno tenuto banco nella costruzione del 15 ottobre. "Il corteo classico è necessario" dicevano alcuni; "No, il corteo classico è una sfilata inutile" hanno risposto altri. Abbiamo fatto centinaia di cortei classici e ne faremo ancora, non per questo andranno sempre bene o smetteranno di andare bene in una crisi epocale. Però in Egitto Mubarak è stato cacciato occupando una piazza, pratica che alcuni hanno visto come fumo negli occhi sabato scorso. Le forme che si utilizzano dipendono dall'obiettivo che si danno: se un corteo serve solo a offrire visibilità ai vari dirigenti politici, allora non servono a niente. Se, ad esempio, servono a ristabilire il diritto a manifestare, come sembra debba accadere, allora sono fondamentali. Sul 15 ottobre ha aleggiato anche la parola d'ordine de "l'assalto ai palazzi del potere" che avrebbe dovuto essere risolutiva e offrire uno sbocco adeguato alla protesta. Anche in questo caso restiamo nel campo dell'astrazione. Quale assalto, a quali palazzi, per fare cosa? I "palazzi del potere" sono lì e manifestarci intorno può avere un senso ma anche non averlo. Il 14 dicembre quel senso esisteva e gli studenti hanno fatto bene a manifestare contro chi legiferava sulla loro testa ma hanno fatto altrettanto bene il 22 dicembre a sfilare sulla tangenziale di Roma. Due contesti diversi, due modalità diverse.
Se tutto invece si gonfia di significati impropri e tutto si simbolizza è chiaro che il simbolo più dirompente ha la meglio su tutti gli altri. L'auto in fiamme è un simbolo inimitabile, benché non serva a niente.
Il rischio, ora, è di piombare dentro una farsa della storia, dentro anni 70 in sedicesimo. Non funziona, c'è qualcosa che non va.
In questo senso è stimolante la riflessione che fa Wu Ming (vedi qui) quando invita a interrogarsi sulla funzionalità del corteo come grande evento. Il “grande evento” non è sempre la strada più utile per costruire un movimento. Anche per questo ci sembrava utile l'idea dell'accampamento in piazza: non per imitare la Spagna ma per darsi una possibilità di continuare e finalmente di discutere, incontrarsi, costruire un progetto minimo.
Ma la domanda più esigente è ancora un’altra: cosa aiuta i movimenti a crescere e a ottenere vittorie? Perché da Genova in avanti, e anche da prima, il vero problema dei movimenti sociali è che non vincono più.
La discussione può solo essere abbozzata perché implica una riflessione molto profonda - sull'analisi delle forze in campo, la traiettoria della crisi, la natura dei soggetti che la subiscono, la dimensione internazionale - ma alcuni punti possono aiutare a farla.
1. Cominciamo con chiederci che fine ha fatto lo "sciopero generale e generalizzato"? Sembrava la nuova frontiera della mobilitazione permanente e ora sembra scomparso. Qui occorre invece ragionare un po' più seriamente dell'efficacia e utilità dello sciopero e dello sciopero generale che resta una delle armi più importanti che lavoratori, precari di vario tipo oppure studenti e migranti hanno ancora a disposizione. Il problema è che gli scioperi degli ultimi anni hanno spuntato l'arma delegittimandola. Ma, soprattutto in una crisi di questa dimensione, c'è qualcosa di più efficace che bloccare la produzione di plusvalore per ottenere dei risultati? Se è così, e a noi sembra ancora così, la discussione su come arrivare a uno sciopero che sia "davvero" generale e "davvero" generalizzato è ancora tutta da fare e non è mai stata fatta. Spesso ha prevalso l'estetica, l'immaginario piuttosto che la sostanza. Però da qui bisogna ripartire.
2. Ha grande fascino l'idea che occorra "sanzionare" i soggetti responsabili della crisi, a partire dalle banche. Ma davvero rompere una vetrina o un bancomat ha qualche minimo effetto sui meccanismi di funzionamento della finanza? Bruciare una pompa di benzina blocca le majors del petrolio? Rubacchiare in un supermercato fa scendere i prezzi? Non farebbe molto più male l'abolizione del segreto bancario, l'ottenimento di moratorie sul debito, una diversa tassazione, la trasparenza bancaria? O magari il boicottaggio di questa o quella banca come ha cercato di fare la campagna "Banchearmate" (vedi qui)?
3. La crisi è globale i movimenti sono ancora rigidamente nazionali. Certo, esistono le reti internazionali, i Forum, gli incontri, le manifestazioni comuni. Ma sono ancora, dopo 12 anni da Seattle, composti dai settori militanti delle organizzazioni. Non c'è mai stato un reale superamento dei confini. Si pensi alla Fiom, che di fronte all'assalto di Marchionne, non riesce a fare fronte comune con i metalmeccanici dell'Uaw e nemmeno a fare un coordinamento europeo dei lavoratori dell’auto; si pensi ai migranti, ai precari, agli studenti. La dimensione europea non ce l’hanno i governi e nemmeno i movimenti. Ce l’hanno solo le banche. E in questa mancata dimensione internazionale affonda gran parte di questa inefficacia. E dentro l'inefficacia, ovviamente, ha la meglio la "rabbia" disperata o lo scontro fine a sé stesso.
4. Il coordinamento dei movimenti è finora stato appannaggio dei gruppi dirigenti delle organizzazioni politiche, sociali o sindacali. Ma i movimenti in quanto tale difficilmente si coordinano. Gli studenti con i precari, i comitati dei beni comuni con quelli per l'acqua pubblica, i migranti che hanno condotto lotte rilevanti con gli operai, etc. Certo, appuntamenti comuni ci sono stati ma non hanno prodotto salti di qualità consistenti. Anche la stagione dei "social forum" ha visto il protagonismo delle organizzazioni, a vario titolo, e quasi mai dei movimenti sociali in prima persona. Se nascessero davvero alleanze di questo tipo anche l'efficacia delle mobilitazioni acquisirebbe nuova forza.
5. Un movimento non è una mobilitazione o una manifestazione. Un movimento è una dimensione corposa della riscossa sociale, è partecipazione, consapevolezza dilagante, discussione e approfondimento, forme di lotta che seguono la dinamica delle iniziative. Soprattutto, è democrazia diretta, (o anche delegata, se si sceglie una forma mediata) punto quanto mai debole in un paese come l'Italia che ha sempre visto in azione burocrazie di partito o di sindacato o avanguardismi esasperati. La nascita, crescita e cura di un movimento di massa è anch'esso un lavoro essenziale ai fini dell'efficacia politica. E non è detto che per fare un movimento serva l'evento. La realtà degli ultimi dieci anni ci dimostra, anzi, il contrario. L'evento di Genova non ha prodotto alcun movimento duraturo e efficace socialmente visto che su salari, diritti, ambiente, beni comuni, finanza, etica, e tutto quello che vogliamo aggiungere, c'è stato un vistoso arretramento.
Dall'angolo mortifero in cui il 15 ottobre ha spinto le realtà sociali in Italia - strette tra repressione crescente, avanguardismo militante, fibrillazione tra stutture - si riesce a uscire forse - stavolta non esistono ricette facili - con una riflessione cruda su quanto avvenuto almeno negli ultimi dieci anni con critiche e autocritiche e con la possibilità di rimettere al centro delle preoccupazioni reali l'efficacia dell'azione politica. La possibilità di ottenere vittorie. Senza questo passaggio, nemmeno la presa di distanza dalle violenze potrà bastare.
E per fare questo andrebbero individuate delle sedi in cui, appunto, discutere. Probabilmente saranno i movimenti stessi a indicare l'ora, il luogo e le modalità.

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