I migranti sono stati costretti ad abbandonare la manifestazione. Con loro ha abbandonato la piazza quella sua dimensione transnazionale. La scommessa dello sciopero precario vive se coinvolge davvero tutte le realtà precarie
Coordinamento migranti
Bologna
Il 15 ottobre come moltissimi altri abbiamo colto l’occasione offerta
dalla giornata globale contro le politiche di austerity: l’occasione
per amplificare le voci disparate di uomini e donne, precarie, migranti,
operai, che ogni giorno fanno esperienza della crisi come di una
precarizzazione sempre più sfrenata del lavoro e dell’esistenza, e che
rifiutano la precarietà come forma selettiva e gerarchica di coazione al
lavoro. Connettere queste voci è stata la nostra scommessa attraverso
il 15 ottobre, e lo abbiamo fatto condividendo il percorso aperto dagli
Stati Generali della precarietà e lo spezzone del precariato sociale che
sabato ha coinvolto migliaia di uomini e donne.
Non ci interessa giudicare i fatti del 15 ottobre a partire dalla contrapposizione, fin troppo angusta e fin troppo nota, tra violenza e non violenza,
o fra i pochi e i tanti separati dalle pratiche messe in scena a Roma.
Si tratta di una contrapposizione che non riesce a cogliere la
complessità di ciò che ha avuto luogo, l’intreccio tra azioni
organizzate e un’opposizione più ampia alla risposta delle forze
dell’ordine, tra l’azione collettiva pianificata di alcuni segmenti del
corteo e l’espressione di massa di un disagio individuale esasperato. La
repressione con la quale si vuole rispondere a questa complessità è
inaccettabile: chi oggi, nelle vesti di deputato del popolo, ripropone
la legge Reale, è il commissario e il magistrato di ieri. Sappiamo fin
troppo bene che le operazioni di polizia, mentre pretendono di
consegnare alla forca dell’opinione pubblica e dei tribunali i presunti
colpevoli, si preparano a estendere la repressione a tutte le lotte
sociali. Rispetto a tutto questo, troviamo risibile e intollerabile lo spreco mediatico che pretende di negare il contenuto politico dello spezzone del precariato, millantando una ‘regia occulta’ dietro agli scontri.
Anche di fronte alla repressione, però, il dovere della solidarietà non può riprodurre in forma rovesciata la coazione dell’emergenza,
impedendo ogni critica. Mentre c’è chi organizza e orchestra gli inviti
alla delazione, noi riconosciamo che esiste e cresce una rabbia enorme
che deve essere presa sul serio, non solo in piazza e dentro i grandi
eventi di massa, ma tutti i giorni dell’anno. I migranti sanno
perfettamente che questo non è un paese per loro. La loro rabbia vive
tutti i giorni senza aspettare l’evento di piazza. Questa rabbia è
spesso l’unico antidoto alla disperazione. I migranti, però, si sono anche accorti che quella del 15 non era una manifestazione per loro,
quando molti sono stati costretti ad abbandonare la piazza, inseguiti
prima che dalla polizia dal contratto di soggiorno per lavoro e dalla
legge Bossi-Fini. Con loro ha abbandonato la piazza quella sua
dimensione transnazionale che, prima di essere a Barcellona o a New York
o a piazza Tahir, è propria dei migranti che vivono e lottano in Italia
da decenni. Non era quella la manifestazione alla quale avevano deciso di partecipare.
E questo vale anche per molti precari venuti a Roma. Facciamo perciò
fatica a considerare la rabbia esplosa a Roma come una sorta di
espressione pura dell’insorgenza, come un grado superiore di coscienza
che il precario medio, il migrante medio o l’operaio medio non avrebbero
ancora raggiunto. Noi non facciamo gerarchie della rabbia,
non sostituiamo alla lista dei buoni e dei cattivi quella dei più o
meno arrabbiati. Ci interessa una misura politica dei comportamenti.
Abbiamo finora scelto il processo di costruzione dello sciopero
precario per dare una risposta politica alla rabbia diffusa che vediamo
crescere giorno dopo giorno. Non pretendiamo di rappresentare l’identità
insorgente di precarie, migranti, operai. Quello che ci interessa è
tenere aperto lo spazio di una comunicazione e connessione tra le
diverse figure del lavoro, consapevoli della nostra parzialità e delle
molte differenze. Quello che ci interessa è inventare e praticare
modalità di sciopero e di scontro sociale all’altezza della sfida posta
dalla precarietà, capaci di colpire i profitti. Quello che ci interessa è
una misura politica delle pratiche, anche di piazza, e pensiamo perciò che si debba avere il coraggio di dire che un bancomat non è una banca e che una banca non è il capitalismo.
Non giudichiamo i colpi inferti ai simboli reali o presunti del sistema
capitalistico a partire dal generico consenso che sono o non sono in
grado di produrre, ma alla luce delle concrete e costanti connessioni
tra precarie, operai, migranti che sono in grado di sedimentare. Se la
misura è questa, restiamo convinti che il processo di costruzione dello
sciopero precario non possa passare in secondo piano di fronte allo
spettacolo dell’insorgenza. Al contrario, uno sciopero precario, proprio
perché coinvolge la precarietà in tutte le sue forme, può produrre
elementi di radicalità persino maggiori di quella che senza dubbio ha
attraversato le piazze romane sabato scorso. La nostra scommessa non è
cominciata il 15 ottobre. E non è finita lì.
Coordinamento migranti Bologna e provincia // Connessioni precarie
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