Il partito di Bossi, il più vecchio dell'attuale rappresentanza parlamentare, mostra segni di debolezza evidente. Segni di una crisi strutturale da cui non sarà facile uscire a meno di un aiuto improvviso del Pd. (La Lega fa il tiro alla fune ma la corda si spezza: 30 feriti, vai al video)
Felice Mometti
“Chi fa casino, in due secondi lo caccio”, questa frase di Bossi
pronunciata dopo il raduno di Pontida e le frizioni con Maroni è più il
segno di una debolezza che di una forza. Forse mai come oggi la
ristrettissima leadership decisionale della Lega, il cosiddetto “cerchio magico”
formato da Bossi, la moglie e altri tre o quattro dirigenti leghisti,
attraversa una difficoltà evidente nel controllo degli umori del partito
e mostra un’assenza imbarazzante di proposta politica. E’ la crisi di
un modello di partito, il più vecchio nell’attuale rappresentanza
parlamentare, che sta scuotendo gli stessi fondamenti costitutivi e
aggregativi che in passato erano invece stati le ragioni del successo.
Una crisi diversa rispetto a quella dell’inizio degli anni duemila in
cui la Lega, dopo aver perso milioni di elettori, ne usciva abbandonando
la secessione, iniziando la lunga marcia attraverso le istituzioni
puntando sul federalismo e il razzismo istituzionale.
Nella Lega i simboli, il linguaggio dei comportamenti, l’essere - pur
in modo astratto - una “comunità organica” coesa e altra rispetto
alla società contano molto, hanno sempre contato molto. Vedere
nell’ultimo raduno di Pontida un immenso striscione che invoca Maroni
come Presidente del Consiglio il quale, acclamato dalla folla,
interviene dal palco rompendo il rigido protocollo leghista, e un Bossi
in evidente imbarazzo davanti ai cori che chiedono la secessione, sono
segnali che denotano un’ inquietudine profonda dei militanti leghisti. E
non bastano le frasi ad effetto: il “preparatevi” di Bossi dopo i cori
secessionisti e il “Padania libera e indipendente” di un
Ministro dell’Interno che dovrebbe rappresentare uno Stato sovrano. Sono
palliativi, mestiere da comiziante. Al massimo scaldano un po’ il cuore
di una base disorientata.
Dentro la Lega si sta sempre più allargando la linea di frattura tra
coloro che con più determinazione perseguono l’inserimento
istituzionale, la collocazione negli ambiti economico-finanziari che
contano e la maggioranza dei militanti, sempre più ristretta, che ha una
concezione del partito legata ai temi del contrasto razzista
all’immigrazione e della lotta contro “Roma ladrona”. Una
tensione che si è evidenziata subito dopo Pontida con il
commissariamento di alcune segreterie provinciali e regionali e nella
vicenda della riconferma di Reguzzoni come Presidente del gruppo alla Camera.
La realtà è che il gruppo dirigente della Lega è finito in un vicolo cieco.
Bossi non vuole e non può rompere con il governo Berlusconi perché non
ha ottenuto nulla o quasi che possa spendere da un punto di vista
politico. Il federalismo fiscale formalmente è stato ottenuto, ma i
primi effetti non sono quelli propagandati dalla Lega. Anzi, i primi
calcoli mostrano che in molti comuni del nord, e tra questi molti
amministrati dalla Lega, si ha una riduzione dei trasferimenti
finanziari e più rigide regole in materia di bilancio che obbligheranno
quegli amministratori a imporre nuove tasse. Al tempo stesso la crisi
economica e del governo Berlusconi riducono sempre di più i margini per
le cosiddette riforme epocali continuamente annunciate da Bossi. A ciò
si aggiunga il profondo disagio della base leghista a sostenere un
Premier sempre più impegnato nella guerra contro la Magistratura e in
patetiche notti brave che ad affrontare i problemi di una crisi
economica e istituzionale, e il quadro è completo. Se questa è la
situazione, quali vie di uscita si prospettano alla Lega ?
Nelle crisi precedenti la Lega ha già sperimentato due possibili
opzioni che non può più ripetere oggi. L’abbandono della secessione per
il federalismo e la codificazione di una pratica e di un immaginario
razzista trasferendoli all’interno delle istituzioni. Sembra evidente
che il percorso inverso, dal federalismo ritornare alla secessione e
dal più raffinato razzismo istituzionale a quello ruspante dei gazebo
non sia più praticabile, anche perché negli ultimi anni un’intera
filiera leghista nelle amministrazioni locali si è andata formando sulla
base della marcia nelle istituzioni e dell’occupazione dei consigli di
amministrazione delle multiutility e di alcune banche del nord. I
rapporti e le relazioni dentro le istituzioni politiche e finanziarie si
stanno mostrando più solidi e performativi della pratica politica,
della simbologia e dell’immaginario leghista. Il motivo è semplice:
nemmeno la Lega regge l’urto dei meccanismi impersonali di funzionamento
di un modo di produzione economico-finanziario e di un sistema
istituzionale, pur in crisi, ma considerati imprescindibili anche dal
gruppo dirigente leghista. Non si possono escludere colpi di coda, anche
da parte di limitati settori leghisti che possono radicalizzare il
proprio razzismo, ma, in assenza di un intervento salvifico del dio Po,
le contraddizioni della Lega sembrano destinate a cristallizzarsi.
Sempre che non arrivi la scialuppa di salvataggio del centrosinistra.
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