lunedì 26 marzo 2012

Come ti licenzia la Fiat

Un modo per liberarsi di tre sindacalisti scomodi. E' quanto scrive il giudice di Potenza nelle motivazioni della sentenza che hanno condannato la Fiat per comportamento antisindacale a Melfi. Un testo che rappresenta uno spaccato di come si vive, si lavora e si è licenziato negli stabilimenti di Marchionne
Salvatore Cannavò
Un licenziamento per liberarsi di tre sindacalisti scomodi. E' il senso fondamentale delle motivazioni della sentenza del Tribunale di Potenza che ha accolto il ricorso della Fiom in merito ai tre operai di Melfi licenziati dalla Fiat e reintegrati in azienda. Un lungo e dettagliato documento che ricostruisce al minuto i fatti avvenuti la notte del 7 luglio 2010 quando, secondo l'azienda, Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, si erano resi responsabili di un atto di sabotaggio interno all'azienda con grave pregiudizio della competitività della Fiat. Un'accusa che portò al licenziamento in tronco dei tre. Che, in una prima sentenza in giudizio sommario furono reintegrati in fabbrica, poi di nuovo espulsi per il giudizio di primo grado e, infine, riabilitati in appello di cui ieri sono state depositate le motivazioni. “Nessuna volontà diretta deliberatamente a impedire l'attività produttiva vi è stata” dicono i giudici di Potenza in quella che l'avvocato Alberto Piccinnini, uno dei difensori della Fiom, giudica una “rigorosa motivazione che rende giustizia alla ricostruzione dei fatti”. Perché, in effetti, i giudici non si lanciano in teorizzazioni o tesi precostituite ma fanno discendere il loro giudizio conclusivo da una puntigliosissima ricostruzione dei fatti di quella notte rileggendo con attenzione le testimonianze prodotte sia dall'azienda che dal sindacato. E così scoprono innanzitutto che il blocco dei carrelli – l'atto di sabotaggio addebitato ai tre – era stato provocato dalla stessa azienda in forma cautelativa al momento della proclamazione dello sciopero – unitario – di quella notte. A bloccare i carrelli è un responsabile di Ute mentre il gestore operativo, Francesco Tartaglia, reimposta la produzione. A quel punto si tratta di far ripartire l'attività dello stabilimento ma è esattamente a quel punto, intorno alle 2,24 che lo stesso Tartaglia si reca là dove gli operai avevano prodotto un'assemblea spontanea e intima “provocatoriamente” a uno dei tre operai, Marco Pignatelli, non solo di spostarsi per far ripartire i carrelli ma anche di tenere un atteggiamento di sfida e di contestazione nei confronti dell'azienda. Tale da essere “contestato” e quindi licenziato.
Lamorte e Barozzino interverranno in soccorso del compagno di lavoro e quindi anche loro saranno contestati e poi licenziati. Solo che tutto questo avviene nell'arco di cinque minuti perché, anche secondo l'azienda, alle 2,30 tutto è finito. E avviene non isolatamente ma in mezzo a tanti altri operai. “Dunque, scrivono i giudici, alla luce delle risultanze acquisite, l'addebito contestato deve subire un sicuro ridimensionamento”. Insomma, si è trattato di un alterco durato pochi minuti e che non può certo aver recato pregiudizio “alla competitività dell'azienda”. Il giudice formula così “ampie riserve sulla rispondenza a un criterio di proporzionalità dei licenziamenti”.
Inoltre, il modo in cui il “capo”, Francesco Tartaglia si è rapportato ai tre “non è stato così tranquillo e pacato come l'azienda sostiene”. Del resto, questo atteggiamento provocatorio era stato condannato dalle stesse Rsu in modo unitario ma alcune sigle (Fismic e Uilm) hanno poi fatto marcia indietro anche per effetto dello scontro sindacale che si era determinato con l'accordo di Pomigliano. Quindi, “i licenziamenti di cui trattasi rappresentano nulla più che misure adottate per liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di forte antagonismo”. Da qui il comportamento antisindacale, regolato dall'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, e la decisione dei giudici favorevole ai tre operai.

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