sabato 13 agosto 2011

Quello spazio da attraversare



Sulla stampa prevale il commento distaccato e sociologico, spesso fuorviante. Ma il movimento inglese individua una forma della politica con cui fare i conti
Felice Mometti
Che siano i vecchi testi dei Clash -London’s burning e London calling - gli strumenti più utili per capire quello che sta accadendo a Londra ? Potrebbe sembrare una provocazione ma poi, pensandoci bene, non tanto. Se dovessimo rifarci solo ai commentatori dei media mainstream dovremmo concludere che siamo di fronte a saccheggi e incendi ad opera di fantomatiche gang criminali che hanno approfittato in modo strumentale di un “grave errore” della polizia. Uno schema interpretativo che si ripete stancamente dal 2005 con le ” notti dei fuochi” delle banlieues francesi, passando per la rivolta giovanile e studentesca greca del 2008, per approdare a Londra in questi giorni, solo per citare alcuni esempi. Quel che non si capisce, o si fa finta di non capire, è che pur nelle evidenti diversità queste forme di ribellione hanno dei tratti comuni. Partiamo dalle differenze.
Le banlieues francesi sono esplose attaccando direttamente i simboli e i luoghi istituzionali sia che fossero municipi, scuole o biblioteche in quanto visti come espressione della catena del potere statale che aveva nella polizia lo strumento della repressione brutale. La quarta generazione di migranti, nati in Francia e formalmente cittadini francesi, ha mostrato di non riconoscersi nei “valori “ repubblicani francesi e al tempo stesso non ha mai avuto un paese di origine dove eventualmente tornare anche solo con la costruzione di un immaginario. La rivolta greca della fine del 2008 ha avuto i caratteri della contestazione radicale di un sistema economico e della sua rappresentanza politica, con un’evoluzione che si è politicizzata velocemente. I giovani greci hanno misurato sulla propria pelle la distanza tra la loro condizione e un futuro fatto di politiche liberiste e securitarie. Una distanza che è precipitata nel presente dell’omicidio da parte della polizia di Alexandros Grigoropoulos ed è progressivamente aumentata con la distruzione dello stato sociale imposta dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale.
In una lettera di qualche giorno fa al quotidiano inglese The Guardian un lettore commentando i riots che si stavano diffondendo ad altre città oltre Londra si esprimeva in questi termini: i rivoltosi stanno facendo per le strade quello che i banchieri hanno fatto nel paese. Come dire: ai riots dei banchieri nelle borse mondiali sono succeduti i riots nelle strade inglesi. E’ altresì fuori discussione l’influenza, in quello che sta succedendo nelle città inglesi, delle rivolte arabe e del movimento studentesco dell’inverno scorso. Un’influenza non diretta ed esplicita ma che si dà nei comportamenti, nella radicalità della contrapposizione ai modelli di dominio, nel rifiuto della ricerca di una rappresentanza politica tradizionale.
Ma a Londra c’è dell’altro. A partire dal neologismo razzista, Londonistan, che si è affermato anche nel gergo popolare per definire la città. Londra come l’Afghanistan, tante “tribù”, tante etnie, che vivono ognuna nel propri territori dai confini simbolicamente ben delimitati e definiti. E’ il risultato di una politica, laburista o conservatrice non fa molta differenza, che traeva origine da un concetto di integrazione che si basava sulla “relazione tra le razze”. Il nucleo centrale era rappresentato dalla “britannicità” bianca attorno al quale ruotavano le varie comunità delle “minoranze etniche”. Lo Stato favoriva e finanziava in vario modo le gerarchie delle comunità migranti per esercitare una forma di controllo sui conflitti che esplodevano o potevano esplodere ed accettare un sistema di relazioni sociali e politiche che prevedeva un riconoscimento, sempre provvisorio e condizionato, delle “minoranze etniche”. Questo modello di integrazione differenziale, specificamente inglese ma con sostenitori anche dalle nostre parti, è andato in pezzi. La crisi politica e economica, gli elevati tassi di precarietà e disoccupazione presenti nelle “minoranze etniche” pur con cittadinanza britannica, la messa in discussione - con comportamenti e atteggiamenti sociali e culturali - dell’ “autorevolezza” della comunità da parte delle giovani generazioni hanno scardinato quello che altro non era che una forma di razzismo istituzionale per interposta persona. Le gerarchie e le relazioni interne alle comunità erano intese come strutture disciplinari e di controllo subordinate allo Stato. Da qualche tempo il Governo inglese, anche qui tra Brown e Cameron non ci sono particolari differenze, ha ripreso il monopolio del razzismo istituzionale aggiungendovi una dose massiccia di islamofobia con una legislazione speciale.
“Out of control” titolava un paio di giorni fa l’Indipendent riferendosi ai riots. Avrebbe dovuto titolare: “fuori controllo ormai da qualche anno”. Tuttavia si sbaglierebbe se si pensasse che la rivolta iniziata a Londra sia un fenomeno da catalogare sotto la voce della rabbia cieca e apolitica. Se per politica si intende la costituzione di uno spazio comune conflittuale in cui si impongono quei soggetti che lo “spazio del dominio” non vede, che usano parole che non erano riconosciute come tali, che hanno comportamenti difformi alle regole del mercato delle merci allora qui si collocano i tratti comuni tra Parigi, Atene e Londra. Sono forme di soggettivazione ibride e accidentate che raggiungono velocemente le fasi acute dello scontro sociale e istituzionale per poi rifluire. Ma qui sta la soglia della trasformazione, della produzione politica di comportamenti che non si fanno riassorbire e non delegano la loro rappresentanza. I comportamenti di una nuova classe a venire.
Forse il salto di qualità consiste nel non posizionarsi dal lato dei commentatori, seppur solidali, delle soggettività che aprono gli spazi politici ma frequentare, attraversare e facendosi attraversare da quegli spazi. Il governo inglese probabilmente riuscirà a domare questo incendio intensificando la repressione e le leggi speciali. Un fatto tuttavia appare certo, in qualche modo già prefigurato da Joe Strummer, oggi: “ Londra sta chiamando le città sperdute”

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