mercoledì 3 agosto 2011

Il nodo scorsoio del debito


Finanza e credito al consumo rendono la qualità della vita una scommessa a perdere. Una recensione del libro Capitalismo tossico. Crisi della competizione e modelli alternativi.
Piero Bevilacqua
(da il manifesto)
All'ormai sempre più fitta letteratura sulla crisi economico-finanziaria esplosa nel 2008 – destinata a diventare sterminata, perché gli effetti del tracollo stanno ora sconvolgendo la società e la vita di gran parte dei paesi industrializzati - si è appena aggiunto un testo di due autori italiani degno di essere segnalato per più motivi. Il saggio di Marco Bertorello e Danilo Corradi, Capitalismo tossico. Crisi della competizione e modelli alternativi (Edizioni Alegre, pp. 187, euro 16) costituisce un quadro essenziale e a mio avviso ineccepibile, dei «motori» fondamentali che hanno determinato il collasso cui oggi si cerca di porre rimedio con politiche classiste analoghe a quelle che l'hanno generato.
Già il titolo è in realtà una interpretazione della crisi. Tossici, vale dire generatori di squilibri insostenibili, non sono i prodotti finanziari, ma il capitalismo stesso, la macchina produttiva che regge le nostre società. Gli autori, infatti, disegnano con notevole chiarezza l'intero meccanismo di cui è figlia la situazione presente, e che non è certo il risultato della speculazione finanziaria, come vorrebbero far credere, o credono realmente, tanti analisti funzionari o frettolosi giornalisti. Una illusione ottica che già Marx aveva chiarito ai suoi tempi. Essi fissano il punto di partenza della crisi nella fine dei Trenta gloriosi, nel 1973-74, allorché si esaurisce il modello di sviluppo keynesiano.
A quel blocco del processo di accumulazione il capitale risponde orchestrando un attacco di classe di grande portata, che oggi appare visibile con assoluta nitidezza.
Il primo passo è l'intensificazione dello sfruttamento operaio per riprendere i margini di profitto intaccati dalla lotte degli anni '60. È una scelta che si realizza attraverso le grandi ristrutturazioni industriali degli anni '80 e il ridimensionamento dello Stato sociale negli anni '90. Un insieme di iniziative che consegue più risultati: mentre rimette in moto la macchina dei profitti destruttura l'organizzazione sociale del lavoro, fiacca il potere antagonista degli operai e dei ceti medi, piega più strettamente le politiche statali ai propri bisogni strategici.
I risultati in termini strettamente economici sono enormi. Bertorello e Corradi ci forniscono due tabelle – relative all'evoluzione del saggio di profitto in Usa e Europa tra il 1960-2008 e all'andamento dei salari rispetto al Pil, nelle stesse aree – i cui grafici valgono più di decine di pagine analitiche. Esse costituiscono la rappresentazione plastica di una fase storica del dominio capitalistico che ha sconvolto le società di antica industrializzazione.
Ma come è stato possibile ottenere simili risultati economici e politici, deprimere così gravemente le dinamiche salariali, senza subire i contraccolpi di un indebolimento della domanda aggregata? Come tenere a bada l'antico mostro della sovraproduzione? La risposta è nota: l'indebitamento. Rispetto a tutte le crisi precedenti, la novità risiede in un insieme di strategie finanziarie di grande sofisticazione che hanno creato un «effetto ricchezza» e occultato la depressione pluridecennale dei redditi da lavoro.
«La finanza sregolata ma politicamente governata, è stata il modo singolare ma efficace per rispondere alla tendenza alla stagnazione da domanda che è l'altra faccia della precarizzazione del lavoro.» Crollato il castello di carta di una «crescita a debito», il meccanismo dell'accumulazione reale è conflagrato. È lo spettacolo che abbiamo da tre anni sotto gli occhi. Un imballo sistemico a cui gli intellettuali del capitale non sanno trovare soluzioni, se non ripercorrendo lo stesso sentiero che ha portato alla crisi. Uno stallo – reso drammatico da inediti problemi ambientali – alla cui soluzione gli autori si forzano di dare alcune indicazioni di prospettiva.

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