Il regime di Gheddafi è stato ormai sconfitto e la Nato è riuscita a condizionare una delle rivoluzioni arabe. Ora si apre una nuova fase e resta aperto il problema di un rapporto con forze veramente del cambiamento e non semplici esecutori delle politiche occidentali
La caduta di Tripoli rappresenta la fine del regime di Gheddafi. Anche se nei prossimi giorni continueranno i colpi di coda e ci potranno essere ancora violenze e morti, sul piano politico l’autoritaria famiglia (in senso proprio e politico) al potere da 42 anni è arrivata al capolinea e non avrà più voce in capitolo nelle vicende libiche.
La crisi del regime era iniziata già nello scorso febbraio con le prime manifestazioni popolari a Bengasi e altre città, non solamente dell’est libico. Una crisi che aveva fatto pensare ad una rapida evoluzione politica, simile a quanto accaduto in Tunisia ed Egitto; una speranza che non aveva fatto i conti con le capacità militari del regime libico e con la struttura di milizie e di sicurezza messa in piedi in questi decenni, che ha permesso una reazione militare pesantissima del regime, le cui forze militari sono arrivate fino ai confini di Bengasi e hanno bloccato la rivolta armata, come in precedenza avevano colpito la protesta popolare. Il quadro è cambiato con l’intervento militare della Nato – “autorizzata” dalla solita ambigua e illegittima risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, del quale ormai è il solo braccio armato riconosciuto – che ha reso possibile la sconfitta militare del regime.
Le modalità della caduta del raìs libico pongono molte domande e rendono necessaria unariflessione politica da parte delle forze internazionaliste, in particolare quelle che fin dall’inizio della “primavera araba” hanno salutato con favore una rivoluzione regionale - che riteniamo ancora in corso - da sostenere e diffondere.
È indubbio, qualsiasi sia il giudizio sulle forze di opposizione libiche, che il principale contributo alla caduta del regime libico sia venuto dall’intervento militare della Nato. Un intervento che in qualche modo ha appreso la lezione dei precedenti iracheno e afgano: bombardamenti dal cielo (determinanti ma in proporzione inferiori a quelli sull’Iraq e sulla stessa Jugoslavia nel 1999) – con il solito carico di “effetti collaterali” dimenticati e nascosti; nessuna truppa di terra, a parte i consiglieri delle forze speciali che hanno operato come addestratori delle forze di opposizioni e come supporto alle missioni aeree; una pressione parallela sulla forze lealiste – colpite pesantemente e allo stesso tempo in misura inferiore a quanto accaduto in Iraq, e vedremo poi il motivo – e sugli stessi rivoltosi, ai quali è stato dato il massimo supporto militare cercando al contempo di controllarli e di inserire uomini di fiducia dell’occidente ai vertici.
La ragione di questo “consiglio” ai rivoltosi libici è molto chiara e non ha nulla a che vedere con le preoccupazioni per i civili e la loro sicurezza (che non è stata particolarmente a cuore dei bombardieri occidentali). L’intervento della Nato aveva l’obiettivo di garantire un controllo occidentale sulle dinamiche libiche e di evitare una situazione di ingovernabilità prolungata dopo la crisi del regime e lo stallo dell’avanzata delle forze di opposizione – in questo modo garantendo anche che non si producessero rotture radicali incontrollabili e allo stesso tempo ridiscutere le gerarchie di controllo delle materie prime energetiche libiche. Mantenere al loro posto agenti delle forze di sicurezza e al contempo recuperare funzionari del passato regime – l’ultimo di cui abbiamo notizia è addirittura il numero 2 dei servizi di intelligence del regime, che non ci pare possa essere considerato “innocente” rispetto al passato... – significa continuare ad avere a che fare con uomini che in questi anni hanno collaborato con i servizi occidentali e mantenere un equilibrio rispetto all’eterogenea opposizione, non completamente affidabile per l’occidente.
Questo “consiglio” fa il paio con un ulteriore disegno europeo e statunitense, anche questo molto presente sui media in questi giorni. Un esempio è dato dall’intervista al generale statunitense Anthony Zinni al Corriere della Sera del 24 agosto, che dichiara: “Il compito politico che attende la Nato è più difficile di quello militare svolto sinora. Si tratta di aiutare la società libica, che è tribale; a organizzarsi democraticamente, a darsi partiti e istituzioni, un governo e un’opposizione, a unificarsi il più possibile e a varare un programma di riforme giudiziarie, economiche, civili. Sarà una fase molto critica, da cui dipenderà il nostro successo e il successo della Libia libera”. Una dimostrazione esemplare del razzismo di fondo verso gli arabi “tribali” e infantili – che fa il paio con quanto esprimeva il ministro della difesa israeliano sempre sul Corriere del 17 maggio scorso quando affermava che il risultato delle rivolte arabe sarà “nel futuro immediato, il caos. A lungo termine, forse qualcosa di buono... in molti paesi l'esercito è diventato il pilastro della democrazia, perché la società araba non è pronta a una democrazia: non puoi aspettarti che emerga un Havel o un Walesa. E'emozionante che la gente alzi la testa, fra una generazione s'arriverà a un miglioramento. Ma intanto? Arrivano i Fratelli musulmani. O Stati caotici come il Libano”.
In sostanza, i diritti e i bisogni del popolo libico sono l’ultima delle preoccupazioni dei liberatori occidentali.
Questo è quanto avvenuto: la caduta di Gheddafi poteva non essere necessaria ai paesi europei in un primo tempo e una soluzione mediata è stata un obiettivo di molti governi per diverso tempo; la stessa caduta è diventata un obiettivo obbligato per il discredito del regime e le scelte di Gheddafi, che avrebbero reso la situazione libica troppo instabile per troppo tempo. In qualche modo si conferma quanto sosteneva Munir Shafiq, già leader di Fatah, su AlJazeera.net il 4 luglio: “La posizione degli Usa e della Nato è una flagrante cospirazione contro la rivoluzione popolare in Libia per mantenere le forze di Gheddafi in attività fino a quando non saranno in grado di controllare il CNT e forse anche qualche leader sul campo; solo allora rovesceranno Gheddafi, perché stanno lavorando contro il popolo, la rivoluzione e il futuro della Libia”.
Il nostro giudizio sul carattere popolare – oltre che giusto, legittimo e politicamente positivo di fronte alla dittatura libica - della rivolta di febbraio/marzo non cambia, ma deve essere accompagnato da una maggiore analisi delle forze in campo e della direzione delle forze di opposizione.
Naturalmente lo spettro politico della Libia non è riconducibile solamente al CNT e nemmeno ai vari notabilati che cercano di piazzarsi nei posti di potere locali e nazionali (un esempio di questa logica sembra la “Conferenza per il dialogo nazionale” che si è tenuta il 28 luglio a Bengasi, alla presenza di settori islamismi moderati e di esponenti liberali, tutti maschi.... – conferenza contestata platealmente da settori giovanili). Ci sono diverse forze sul piano locale, e non si potrà prescindere dalla voce e dalla volontà di partecipazione dei settori – soprattutto giovanili - che sono stati in prima fila contro il regime nelle settimane di febbraio e marzo e non pensiamo vogliano tornare a essere spettatori di decisioni altrui.
Le scelte successive del CNT stesso – dalla giustificazione di alcuni attacchi militari su Tripoli, alla firma di contratti petroliferi e scambio commerciale con paesi occidentali e stati del Golfo di sicura fede autoritaria e feudale (pensiamo a Qatar e Arabia saudita) alla conferma dei vergognosi e criminali accordi di Gheddafi con i paesi europei (Italia per prima) in materia di repressione e prigionia dei migranti – hanno reso sempre meno sostenibili le sue posizioni e sempre più confusa la vicenda politica e militare.
Il nostro non potrà essere un atteggiamento speculare a quello dei leader europei e statunitensi, che vogliono “insegnare” ai libici come si costruisce una democrazia (liberale e liberista), pensando di essere noi a poter spiegare ai libici come si organizza una sinistra radicale, come si fa una rivoluzione e come la si conserva “pura”. Il nostro compito è di riconoscere, incontrare e costruire un dialogo serrato con singoli esponenti o gruppi di sinistra laica, democratica e popolare per iniziare una relazione di sostegno e di scambio reciproco. Nulla da insegnare, quindi, ma la comprensione che la nuova fase in Libia presenta la possibilità del pluralismo e quindi dell’organizzazione di organizzazioni politiche e sociali indipendenti (e sembra che già a Bengasi sia stata fondata una federazione di sindacati indipendenti), così come rimangono aperte le questioni di fondo che hanno spinto decine di migliaia di giovani alla rivolta: non solo la fine della dittatura, ma la volontà di un futuro degno e della loro partecipazione politica piena.
Se diamo per scontata la reazione dell’insieme del centrosinistra e del suo capo dello stato, che hanno sempre appoggiato e sostenuto le missioni e le guerre criminali dell’Italia negli ultimi 20 anni e che anche questa volta hanno entusiasticamente preso le parti dei bombardieri dell’Alleanza atlantica, dobbiamo riconoscere che le stesse ragioni di fondo dell’intervento della Nato non erano condivise all’interno del movimento. Così abbiamo visto chi ha visto come positivo o comunque necessario, almeno in un primo momento, l’intervento (chiesto dai ribelli di Bengasi) perché avrebbe evitato un massacro e in qualche modo salvato la rivoluzione – di fronte all’incapacità di un sostegno diretto ed efficace delle sinistre rivoluzionarie; chi (come chi scrive) si è schierato contro l’intervento della Nato pur giudicando criminale il regime di Gheddafi e sperando nella sua caduta, ma ritenendo la scelta dell’Alleanza atlantica un modo per controllare direttamente la Libia e con essa il nord Africa protagonista di processi rivoluzionari pericolosi per l’Europa e gli Usa; chi si è schierato contro l’intervento imperialista giudicando totalmente pretestuose le giustificazioni della Nato e chiedendo in un secondo tempo che si arrivasse ad un cessate il fuoco e a trattative tra le parti con Gheddafi ancora protagonista.
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