martedì 19 luglio 2011

Una spoon river per il '68

       
Recensione del libro D'altri tempi: Un’elegia per la rivolta che fu. Con il linguaggio scarno e asciutto dello scrittore Stefano Tassinari.
Filippo La porta
(Da Left)
Compito principale della letteratura è dare voce all’altro, specie a chi la voce non ce l’ha, perché è morto o perché è un paria, un ribelle, uno sconfitto, uno sventurato fatto a pezzi dalla vita. Qui la sua moralità, e non nel fatto che dovrebbe trasmettere valori positivi o edificanti. In questo senso Stefano Tassinari, che ha pubblicato finora innumerevoli romanzi di tipo storico (e che dirige la Nuova rivista letteraria), dimostra di essere uno dei nostri scrittori più “morali” oltre a darci una raccolta notevolissima di racconti: D’altri tempi, Alegre.
Si tratta di una specie di Spoon River in cui a volte prendono la parola direttamente i trapassati, i fantasmi degli spariti, e altre volte invece dei testimoni partecipi. Un libro anche utile alla assai labile memoria storica del nostro tempo. Vediamo qui sfilare una serie di figure ormai ingiallite “d’altri tempi”, e anzi degli anni Settanta (che non furono solo di piombo: tutto il male e tutto il bene del presente viene di lì, sia la brutalità esibita che il gusto della condivisione comunitaria): icone rock come Brian Jones dei Rolling Stones, poi Roberto Franceschi e Francesco Lorusso (“angeli ribelli”) uccisi dalle forze dell’ordine poi l’elenco delle vittime dell’Ira della Bloody Sunday irlandese, poi di desaparecidos di Buenos Aires poi l’ultimo prigioniero garrotato del regime franchista poi l’eliminazione di George Jackson leader delle Pantere Nere (do you remember?).
In “Parco Lambro” l’autore stesso (o un suo coetaneo) dialoga un po’ risentito con un ventenne di oggi e , tra l’altro, gli ricorda che «il fatto che la nostra adolescenza sia stata vissuta più all’insegna dell’impegno che del gioco non significa che non sapevamo divertirci…» e ancora che «sono state le nostre battaglie a modernizzare questo Paese» (oltre al fatto che «per la mia generazione la musica è stata il principale mezzo di diffusione delle idee»: io quando vidi Jimi Hendrix al Brancaccio, nel maggio del ’68, capii che la rivoluzione stava lì e non nei collettivi di scuola e nei loro verbosi leader).
La scrittura di Tassinari è sobria, essenziale, ma sempre dolorante e intensa, capace di dire lo strazio (in ciò debitrice molto più nei confronti di Carver che del manierista Tabucchi, entrambi citati nell’introduzione). Ad esempio l’infermiere del manicomio criminale di Aversa (nel racconto sulla tragica fine di Carolyn Lobravico, attrice del Living Theatre) racconta che quando rientrava a casa «facevo la doccia anche d’inverno, come per togliermi di dosso il dolore degli altri, e forse anche qualche senso di colpa…». L’ultimo racconto “Via della Ghiara” è forse il racconto italiano più bello che ho letto di identificazione empatica con il punto di vista del “matto”(siamo a Ferrara, e si è chiuso da poco il manicomio). Quando sale sull’autobus e vede che il posto a lui è assegnato è occupato allora «chiamo l’autista, che subito arriva lì e gli dice: “Mi dispiace ma questo posto è assegnato a Yoghi”, e a me, dalla contentezza viene così da ridere che non mi fermo più».
D’altra parte se oggi la letteratura non rievoca le vittime del potere (o se preferite dei molti micropoteri) chi altri può farlo?

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