lunedì 30 gennaio 2012

Uscire dalla crisi del debito


Michel Husson
Quello che servirebbe per sbloccare la situazione oggi lo si comprende meglio: monetizzare i deficit pubblici. Vuol dire, in pratica, che la Bce, o le banche centrali di ogni paese, devono poter acquisire i titoli del debito emessi dagli Stati per finanziare i deficit di bilancio. E' in effetti il solo modo che hanno a disposizione gli Stati per fare a meno di mercati finanziari che domandano loro tassi di interesse stravaganti.
L'obiezione è nota: non è possibile perché i trattati in vigore lo impediscono. Meglio, piuttosto, "rassicurare" i mercati mostrando loro la volontà di applicare un'austerità forsennata. Ma si tratta di un'impasse, come dimostra l'esempio greco. Da almeno due anni, i governi che si sono succeduti hanno messo in atto politiche di austerità distruttrici e inefficaci. All'inizio della crisi, il debito greco rappresentava il 120 per cento del Pil. Oggi è arrivato al 160 per cento. Se davvero l'obiettivo era quello di ridurre questo rapporto, è chiaro che non poteva essere raggiunto tramite misure che hanno ridotto le entrate fiscali più velocemente di quanto non siano state tagliate le spese.

La Bce rifiuta di finanziare gli Stati ma, nello scorso dicembre, ha fornito alle banche 489 miliardi di euro sotto forma di prestiti a tre anni a un tasso di interesse dell'1 per cento cioè un tasso negativo tenuto conto dell'inflazione.
Con questa liquidità, le banche potrebbero facilmente finanziare i deficit pubblici ma a tassi molto più elevati, dal 3 al 6 per cento per la maggior parte dei paesi. Questo meccanismo funziona peraltro dall'inizio della crisi e illustra l'assurdità della situazione . E' chiaro che qualsiasi debito acquistato a queste condizioni è illegittimo poiché la Bce potrebbe prestare direttamente agli Stati, come fa la Banca centrale negli Usa o in Gran Bretagna. La discussione tecnica sul modo di giungere a questo risultato rispettando in ogni caso i Trattati è in fondo secondaria e la vera domanda è un'altra: perché una tale ostinazione a perseguire una politica chiaramente catastrofica?

La risposta è complessa: c'è la sottomissione dei governi alla finanza e il rifiuto della pur minima rottura. Ma c'è anche una volontà politica sempre più manifesta di approfittare della crisi per gestire una terapia di choc e realizzare le "riforme" che le resistenze sociali hanno finora impedito di portare a compimento.
Si fa fatica a vedere come, ad esempio, una più grande flessibilità del mercato del lavoro in Spagna o la riduzione del salario minimo che la "troika" chiede alla Grecia, possano contribuire a riassorbire i deficit di bilancio. La finanza impone la difesa dei suoi interessi ai governi quando non piazza direttamente i propri incaricati di affari. Le multinazionali fanno così un calcolo pericoloso: quello che perderanno con la recessione in Europa lo recupereranno sugli altri mercati grazie a un supplemento di competitività.

Rispetto a questa fuga in avanti, l'idea che l'uscita dall'euro possa permettere di recuperare la sovranità perduta è un'illusione. Tornare all'antica moneta, "il franco o la dracma", non permetterebbe in nessun modo di allentare la morsa dei mercati finanziari. Al contrario, il debito dei non residenti sarebbe aumentato in proporzione alla svalutazione, e il "nuovo" denaro sarebbe esposto senza protezione alla speculazione. Ancora una volta, l'unica misura immediata, che deve essere presa unilateralmente proponendo la sua estensione, è quella di finanziare il deficit solo tramite le emissioni sui mercati finanziari. Non risolve tutto. Due misure più radicali sono necessarie: innanzitutto la socializzazione delle banche, perché è l'unico modo per cancellare una volta per tutte l'accumulo di debiti mescolati tra loro e che i cittadini non hanno ragione di avallare. Un audit pubblico deve poi identificare il debito illegittimo e definire le modalità del suo annullamento, insieme a una riforma che colpisca i "regali" fiscali accumulati da molti e molti anni.
La prospettiva generale è dunque quella di una rifondazione della costruzione europea. Il che presuppone di rinunciare alla "preferenza per la finanza" per dare all'Europa i mezzi della sua coesione attraverso l'ampliamento del bilancio europeo, l'armonizzazione (verso l'alto) della fiscalità sul capitale e la messa in atto di investimenti socialmente utili ed ecologicamente sostenibili.

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