Le rivoluzioni arabe hanno fatto sentire il loro respiro anche in Palestina. La possibile dichiarazione di “indipendenza” e la nuova generazione della resistenza palestinese. Dal numero di Guerre&Paceappena pubblicato
Piero Maestri
Naturalmente il contesto palestinese è profondamente diverso da quello degli altri paesi della regione, per la presenza dell’occupazione israeliana e la mancanza di uno stato. Quello che invece rende paragonabili la condizione dei giovani palestinesi e degli altri paesi arabi sono la difficile situazione economica e i processi di espropriazione politica da parte delle autocrazie arabe, che nei territori occupati prendono la forma dell’Anp in Cisgiordania e del “governo” di Hamas nella Striscia di Gaza.
In questo senso è però necessario insistere sulle principali responsabilità israeliane, che mantengono una quasi totale chiusura a Gaza - dove proseguono un vero e proprio embargo e un blocco navale illegale, mentre l’apertura del valico di Rafah (da parte egiziana) al passaggio delle persone è solamente parziale - e un controllo sui commerci della Cisgiordania, dove l’economia palestinese (come la vita) viene quotidianamente colpita dalle continue espropriazioni di terre, dagli attacchi dei coloni ai campi e alle coltivazioni e dal Muro dell’Apartheid, come riconosce Christopher Gunnes, secondo il quale “l’occupazione israeliana e le sue infrastrutture, come le colonie, le strade che violano e dividono la terra palestinese, la violenza dei coloni e il Muro in Cisgiordania hanno lavorato per restringere le possibilità dei palestinesi in generale e dei rifugiati in particolare”.
Sul piano della politica di colonizzazione, la popolazione dei coloni che vivono negli insediamenti illegali (in accordo alle norme di diritto internazionale si intendono qui per illegali tutti gli insediamenti costruiti in Cisgiordania e Gerusalemme est, occupate nel 1967) ha raggiunto ormai la cifra di 500.000. un terzo circa dei nuovi coloni ogni anno è formato da cittadini che provengono dal territorio dello stato di Israele.
La proposta di Obama è un tentativo di rimettersi al centro della politica mediorientale dopo le rivoluzioni tunisina ed egiziana (e l’intervento militare in Libia e Bahrein), evitando la proclamazione dell’indipendenza palestinese e cercando di tendere la mano ai sauditi e ai “nuovi” governanti egiziani.
Anche questo processo è segnato da forti ambiguità, perché la necessaria unità – fortemente richiesta dalle piazze palestinesi – potrebbe rivelarsi solamente un accordo di vertice tra le due forze politiche maggioritarie, lasciando fuori di fatto le altre forze palestinesi (in particolare le sinistre) ma anche il movimento giovanile che chiede una decisa svolta nella politica palestinese – e la rifondazione della rappresentanza dell’intero popolo palestinese.
Iniziative alle quali Israele ha risposto con fermezza e spesso con stizza – riuscendo a coinvolgere in questa vergognosa risposta (come anche nel caso della Flottilla 2) anche governi europei. Ma questa stessa risposta denota appunto che la vicenda palestinese non è chiusa e che il vento delle rivoluzioni arabe potrà soffiare ancora in Palestina, con il sostegno di una rinnovata solidarietà internazionale.
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