domenica 24 marzo 2013

Torna in scena il codice Rocco


Si celebra oggi, 21 marzo, il processo agli studenti che nel 2010 manifestarono fin davanti al portone del Senato contro la riforma Gelmini. E in tribunale si rispolvera il famigerato codice Rocco per reprimere il dissenso sociale.

Ludovica Formoso Tatiana Montella
Si celebra oggi, 21 marzo 2013, presso il Tribunale penale di Roma, la prima udienza del processo per i fatti del 24 novembre 2010 quando, durante le proteste studentesche contro la riforma Gelmini si era tentato di portare il dissenso, espresso nei lunghi mesi di mobilitazione, fin sotto i palazzi del potere.
Era in discussione in quei giorni alle camere, il dl 1905, percorso di riforma di scuola e università, iniziato nel 2008, ed accompagnato dalla ferma contestazione degli studenti e delle studentesse. Già con il movimento “dell’Onda” esplosero in Italia le occupazioni e le mobilitazioni contro la legge 133/08, che prevedeva il taglio preventivo di 1,5 mld al F.F.O (“fondo finanziamento ordinario”) e che consente oggi a banche e multinazionali di finanziare l’università, di controllarne gli indirizzi formativi e di legarla ai propri interessi di profitto privato.
Le gravi accuse mosse agli studenti e alle studentesse scesi in piazza variano dalla resistenza aggravata a pubblico ufficiale alle lesioni, da manifestazione non autorizzata al porto d’armi atte ad offendere (gli ormai famosi Book Block noti per essere dei simil scudi di gommapiuma).
Ma non solo, nel corso dell’udienza preliminare, uno dei capi d’imputazione, quello di tentata violazione di domicilio, ha visto cambiare la sua qualificazione nel reato previsto dall’art. 289 c.p. vale a dire attentato contro gli organi costituzionali e contro le assemblee regionali.
Ed ecco di nuovo l’ormai noto e famigerato codice Rocco fornire agli inquirenti e alla magistratura un ulteriore appiglio per reprimere qualsiasi forma di dissenso: quando non ci sono gli estremi per sostenere l’ignobile e improbabile accusa di devastazione e saccheggio, si corre ai ripari supportando l’ipotesi dell’attentato! Cercando di disegnare in tal modo l’immagine di studenti e studentesse che si mobilitano come quella di “piccoli eversori”.
In realtà il gioco non è nuovo e, seppur in un contesto totalmente diverso, lo stesso reato era stato utilizzato per costruire il teorema che vedeva coinvolto il movimento del Sud Ribelle nel 2002 (teoria fin da subito smontata e vicenda conclusa con un’assoluzione piena per tutti).
L’art. 289 c.p. che, nella nuova formulazione del 2006, punisce “con la reclusione da uno a cinque anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette atti violenti diretti ad impedire in tutto o in parte, anche temporaneamente:
1) al Presidente della Repubblica o al Governo l'esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge;
2) alle assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l’esercizio delle loro funzioni”, è inserito nel Titolo I, capo II del codice penale che tutela i delitti contro la personalità interna dello Stato, proprio accanto al reato di guerra civile e al sequestro di persona a scopo di terrorismo o eversione!
La legge del 2006, che ha portato modifiche in tema di reati di opinione (!), ha circoscritto ulteriormente l’ambito di applicazione dello stesso mettendo in risalto il requisito della violenza degli atti o, come sostiene la scarna giurisprudenza in materia, lo loro criminosità.
Siamo pertanto ben lontani dai fatti dell’autunno del 2010 quando grandi mobilitazioni avevano interessato tutta Italia al grido di “no alla riforma Gelmini e no alla dismissione della scuola e dell’università pubblica”. Era stato quello l’autunno dell’occupazione simbolica dei monumenti, dalla Torre di Pisa al Colosseo, l’anno della grande manifestazione del 14 dicembre 2010, che nonostante le compravendite di parlamentari, aveva a suo modo sfiduciato l’ultimo Governo Berlusconi.
La realtà è che viviamo una fase storica dove la crisi economica ha prodotto un’aggressione sempre maggiore del capitale e delle sue strutture di potere, anche attraverso la repressione attuata dagli apparati di polizia e dagli organi giudiziari.
Al punto che la “sovranità popolare” altro non rappresenta che la legittimazione dei Governanti di imporre leggi ad hoc, niente affatto neutre, pensate per criminalizzare categorie sociali e soggetti che non hanno altra responsabilità se non quella di esistere (come per gli immigrati) e di lottare per un mondo diverso .
La classe dominante rafforza, ripensa e rielabora tutti gli elementi di repressione del dissenso allo scopo di mantenere intatto il suo potere, la sua sovranità ed il suo ruolo egemone.
In una tale dinamica, non poteva non rimanerne coinvolto anche il movimento studentesco, quello stesso che dal 2008 con l’Onda è stato il primo a rimandare al mittente il pagamento della crisi, coniando il prefigurativo slogan “NOI LA CRISI NON LA PAGHIAMO”. Nonostante i tentativi di “scoraggiare” la politicizzazione dei soggetti, i giovani e le giovani continuano ad infiammare le piazze e a essere protagonisti in molteplici forme di conflitti ed indignazioni di massa.
Gli studenti pertanto subiscono la stessa sorte di altri movimenti che come quest'ultimo si affermano nello spazio pubblico aprendo margini di conflittualità reale ed esperienze di radicamento concrete: dalla val Susa alle lotte sulla nocività, dai processi contro i manifestanti di Genova 2001.
Quando un percorso di lotta rischia di attivare processi di partecipazione di massa tali da mettere in discussione la legittimità di un sistema, criminalizzare qualsiasi pratica di conflitto continua a restare la soluzione del potere: in questo modo semplici ed evocativi scudi di gommapiuma diventano del materiale atto a offendere e l’occupazione simbolica del portone del senato della Repubblica un attentato agli organi Costituzionali.
Il processo di oggi rappresenta pertanto l’ennesimo tassello della crescente repressione ma con qualcosa in più: provare e testare fino a che punto possa reggere l’accusa di attentato agli organi costituzionali, creare un precedente, sdoganare un reato quasi mai utilizzato nelle aule dei Tribunali così come avvenuto con la devastazione e il saccheggio.
Il tema meriterebbe di essere approfondito e discusso da tutte le realtà che in diverse occasioni si trovano o si sono trovate sotto lo stesso tiro della repressione, come suggerito dall’editoriale del preziosissimo sito della campagna 10x100, ma per il momento cogliamo l’occasione per lanciare un appello: contro l’utilizzo politico ed indiscriminato di tutti quei reati, dalla chiara matrice fascista, ancora presenti nel nostro ordinamento; per l’abolizione del Codice Rocco; contro la criminalizzazione di tutti i movimenti.

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