martedì 29 gennaio 2013

Un derivato è per sempre


Il caso del Monte Paschi di Siena è solo un caso. I derivati sono nella pancia di tutte le banche italiane che si trovano in difficoltà come le banche internazionali. E chiedono soldi pubblici

Articolo tratto da www.recommon.org
Antonio Tricarico
Alla fine il tema delle banche ce l’ha fatta a entrare in campagna elettorale. Certo, si è materializzato nel peggiore dei modi, con la presunta frode realizzata al Monte dei Paschi di Siena dal precedente amministratore delegato. Peccato che, nonostante le sviste – complici? – della supervisione bancaria affidata a Bankitalia e della supervisione sulla fondazione demandata al ministero del Tesoro, il trucco per ripulire i bilanci basato sui prodotti derivati non abbia neanche funzionato, ma solo generato ulteriori perdite.

Ancora più grave, il nuovo management della Banca ha chiesto e ottenuto il salvataggio dal governo con i cosiddetti Monti bond, che servono anche per appianare queste nuove cospicue perdite. Alessandro Profumo – reduce da un “buco”di 10 miliardi di euro a Unicredit e oggi in sella a Montepaschi – ha candidamente ammesso che i 500 milioni in più da chiedere all’esecutivo per arrivare a 3,9 miliardi di euro di aiuti servono proprio per coprire le ultime falle.
Quella dei derivati è ormai storia vecchia nel nostro paese. Nell’ultimo decennio le grandi banche di affari internazionali, quali Morgan Stanley, Deutsche Bank o Ubs, un derivato – a perdere – non l’hanno negato a nessuno, italiani compresi. A dire il vero il cattivo maestro che ha suggerito l’arte dei derivati in materia di finanza pubblica è stato in tempi non sospetti il super-Mario salvatore dell’Euro, che oggi siede a Francoforte. Fu infatti proprio Draghi a consigliare la Grecia sul maquillage da derivati sui conti pubblici nel lontano 2001.
La fine della storia è nota a tutti. Era sempre lui che sedeva a Via XX Settembre come direttore generale del ministero del Tesoro negli anni ’90 e che per far entrare l’Italia nell’euro strinse contratti su prodotti derivati con Morgan Stanley e altre banche anche per limare il debito pubblico nostrano. Manovra riuscita fino alla crisi del 2007-2009, che ha iniziato a generare perdite, al punto che lo scorso marzo il Tesoro ha preferito chiudere il contratto staccando un assegno di 2,5 miliardi di euro per la penale a favore della banca.
Imposto poi il patto di stabilità agli enti locali, limitando così la loro capacità di indebitamento, i suggeritori dei derivati si sono spostati al livello più basso. Le truffe non sono mancate, così come le perdite per gli stessi enti locali. Non sono mancati nemmeno i casi legali contro le banche, tanto che, a sorpresa, il Comune di Milano ne ha pure vinto uno.
Ma mentre tutti si accanivano sugli amministatori pubblici inesperti e raggirati da spietati trader – o trader amici –nessuno guardava ai derivati in pancia alle banche, usate per “operazioni di cosmesi” sui bilanci. Con la crisi tutti i nodi sono venuti al pettine. Forse il Monte dei Paschi, oggi nell’occhio del ciclone, è solo la punta dell’iceberg.
Quale morale trarre da questa storia – oltre alla scoperta dell’acqua calda da parte di tanti che ora si accorgono che fondazioni bancarie e politica sono intimamente legate? Bisogna ricordare come all’inizio della crisi finanziaria destra (al potere) e sinistra (con tanti amici nelle banche di spicco in Italia) si affrettavano a dire che il sistema finanziario italiano era più sicuro e meno avventuriero di quello globale e che per questo le nostre banche non avrebbero avuto problemi, se non da una possibile recessione economica.
Con l’affaire Monte dei Paschi emerge che gli istituti di credito italiani sono stati spregiudicati come quelli esteri, ma anche più “ingenue” delle altre, al punto da mettere a rischio l’intero Paese. Non certo una consolazione, ma una amara constatazione che non esiste solo la crisi della politica, ma anche quella della classe imprenditoriale e delle banche.
Ma se le fondazioni e le banche italiane sono quello che la cronaca ci racconta, allora una cosa si potrebbe subito fare per cambiare rotta. Entro la primavera si dovrà concludere la ridefinizione della partecipazione delle fondazioni nel gigante degli investimenti pubblici, Cassa depositi e prestiti, che gestisce entrate di 230 miliardi di euro l’anno in risparmio postale. Perché non buttarle fuori dal tempio della finanza pubblica e insegnare loro a campare sulle proprie forze? Il problema non è solo nella governance delle banche private, ma anche nella relazione fondazioni-pubblico. Una nuova finanza pubblica, come oggi chiedono in tanti, richiede di ripensare anche quella privata, riducendo la sua invasività e pericolosità per il bene comune. Temi troppo hard per la campagna elettorale?

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