mercoledì 24 aprile 2013

Napolitano e Enrico Letta, il nuovo “ticket” della borghesia


di Andrea Martini

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Mentre stavamo per pubblicare l’articolo che segue, giunge la notizia dell’incarico di presidente del consiglio a Enrico Letta, che ha accettato seppure con la rituale “riserva”. Letta tenterà dunque di formare il governo di “larghe intese”, che Napolitano ha indicato e che la borghesia vuole, pur definendolo “governo di servizio al paese”. Naturalmente il quarantasettenne Letta rappresenta il massimo di “innovazione” che il sistema politico può offrire, pur essendo un politico già lungamente navigato, più volte ministro negli ultimi quindici anni, ex popolare, vice di Bersani nella guida del PD, ma nipote del braccio destro di Silvio Berlusconi, ha il massimo di caratteristiche per garantire l’affidabilità sociale del suo governo e del suo programma e la coesione tra tanti partiti litiganti e rissosi fino a ieri. Il fatto che nel suo discorso di ringraziamento per l’incarico abbia dato la priorità alla sofferenza popolare e all’emergenza lavoro, come sappiamo, non vuol dire nulla. Fiato all’economia può essere dato in tanti modi, spesso socialmente antitetici e i libri che ha scritto parlano soprattutto di liberalizzazioni piuttosto che di salari e di investimenti sociali. L’altra priorità indicata sulla “riforma della politica” anch’essa sarà con tutta certezza affrontata con una stretta efficientistica e decisionista. Dunque, l’incarico conferito a Enrico Letta ci sembra non solo non smentire ma perfino rafforzare quanto scritto qua sotto.

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La vicenda dell’elezione del 12° presidente della repubblica italiana (che poi, com’è noto è ancora quello che fu l’11° della lista, Giorgio Napolitano) offre l’occasione per una riflessione sullo stato della democrazia rappresentativa nel nostro paese e sulla stretta connessione che c’è con gli interessi di classe che si scontrano nella fase attuale.
Lo stesso Napolitano, come è noto, aveva dichiarato che, pur non essendo esplicitamente esclusa dal dettato costituzionale, la sostanza degli articoli 83-91 faceva ritenere chiaramente improponibile una ripetizione del mandato.
Ma a sconsigliare una scelta del genere, oltre che per il rispetto delle norme del 1948, sarebbero bastati i risultati elettorali: tra i tanti che sono usciti sonoramente sconfitti dalle urne del 24 e 25 febbraio c’era anche il capo dello stato, con la secca sconfessione della sua creatura Monti e la decisa caduta di consenso per i partiti che avevano garantito per 11 mesi la sopravvivenza del “governo dei tecnici”.
Non a caso il segretario del PD Pierluigi Bersani, al momento dell’incarico “esplorativo” conferitorgli da Napolitano, si era subito orientato per una soluzione spericolata ma definita “innovativa”, ricercando un improbabile accordo con il vero vincitore delle elezioni, il Movimento 5 Stelle.
Napolitano (e con lui una parte importante del PD) aveva invece immediatamente indicato in un governo di “larghe intese” l’unica soluzione praticabile dopo i risultati elettorali. Fino ad arrivare alla inedita scelta di affiancare all’ “esplorazione” bersaniana l’operazione dei dieci saggi (scelti tra tutti i partiti salvo il M5S), per cominciare a dissodare il terreno e preparare l’ipotesi preferita.
Abbiamo a più riprese espresso in questo sito il nostro giudizio sul movimento “grillino”, sulla sua forte capacità di dare voce al disagio politico e sociale accumulatosi nella società italiana nel corso del ventennio liberista e enormemente aggravatosi con l’insorgere della crisi e, ancora di più, con l’attuazione della “agenda Monti”, ma anche sulle contraddizioni del suo programma, sul suo interclassismo e, soprattutto, sulla scelta di concentrare il fuoco sul malaffare della casta, trascurando e a volte perfino assolvendo le cruciali responsabilità della classe padronale e del sistema del profitto.
Ciò non toglie che il M5S rappresenti per le classi dominanti nazionali e europee un’incognita assolutamente rischiosa. Il suo “euroscetticismo”, combinandosi con gli effetti della crisi, utilizzando il disagio sociale, rischia di incrinare e, forse, invertire il tradizionale “europeismo” del popolo italiano. Il successo elettorale di Grillo è stato, più o meno immeritatamente, salutato con favore in giro per l’Europa (Grecia, Portogallo, Spagna, perfino Francia) da chi si oppone alle politiche ispirate dalla troika.
L’ipotesi di un governo Bersani condizionato da una “non sfiducia” del M5S pur essendo largamente inverosimile, costituiva comunque un’idea agghiacciante per le classi dominanti e i “poteri forti”, paradossalmente più di quanto fosse successo dopo il 2006 con un governo sostenuto da Rifondazione comunista.
E’ in questo contesto che si collocano le giornate per l’elezione del “nuovo” capo dello stato.
Non ci è dato sapere come sia avvenuto che Bersani arrivasse ad abbandonare ogni altro tentativo di intesa con il M5S per mettersi a ricercare (dopo averlo solennemente escluso durante tutta la campagna elettorale e anche dopo) un accordo con il PdL per un’elezione concordata del presidente. Qui, inoltre, la “svolta” di Bersani si intreccia con una vita interna sempre più caotica e autodistruttiva del Partito democratico.
Già la candidatura di Franco Marini concordata tra Bersani e Berlusconi avrebbe potuto costituire una potente spinta verso le larghe intese. Però le confuse ma rischiose velleità di Bersani di tentare un governo di “innovazione”, a giudizio delle classi dominanti andavano stroncate alla base e la contorta vicenda del siluramento simmetrico delle candidature di Marini prima e di Prodi poi hanno offerto un’occasione d’oro per ritornare, stavolta in modo più organico, alla soluzione preferita del “governissimo”.
A spingere in modo ancora più deciso verso un quadro che cancellasse ogni altra possibilità è stata la scelta del M5S di entrare nel gioco politico da cui fino ad allora si era tenuto fuori, con la proposta secca della candidatura di Stefano Rodotà, una candidatura che rischiava di rilanciare almeno in parte del PD l’idea di una ipotesi possibile diversa da quella dell’inciucio con Monti e con la destra.
Anche qui non vogliamo che si crei nessun equivoco sul nostro giudizio circa questo personaggio, politicamente subalterno al moderatismo del PD. Resta però che le sue posizioni esplicitamente “keynesiane”, il suo impegno a fianco di alcuni movimenti antiliberisti (come quello per l’acqua pubblica) la sua attenzione al rispetto delle regole democratiche rischiavano di trasformarlo in un ulteriore ostacolo sulla strada del governo che ci stanno preparando.
D’altra parte la vicenda di questi giorni dimostra ancora una volta, se ce ne fosse ancora bisogno, quale sia la natura del Partito democratico, un aggregato politico che, di fronte al perentorio ordine delle classi dominanti, contro venti e maree si mette sull’attenti anche a costo di rischiare di suicidarsi come partito.

Ecco perché repentinamente Napolitano, indisponibile fino alla vigilia, si convince a operare ancora una volta, accettando un suo secondo mandato, una forzatura istituzionale, dopo quelle fatte nell’autunno del 2011 al momento del siluramento di Berlusconi e dell’incarico ai tecnici di Monti.
Con il contorno e il sostegno dei media più potenti si procede ulteriormente in direzione di un presidenzialismo di fatto.
Napolitano, con il suo irrituale discorso di investitura di fronte alle camere sferza i partiti, indicandoli come i principali responsabili dello stallo istituzionale, cercando perfino di fare propri alcuni slogan propri del senso comune “anticasta”.
I principali quotidiani nazionali, i Tg, gli opinion makers (emblematici sono a questo proposito gli editoriali di Eugenio Scalfari) cominciano a disegnare un nuovo “arco costituzionale”, un sistema di partiti compatibili con il contesto europeo: PD, naturalmente, ma anche PdL, forse anche SEL, probabilmente la Lega, ma certo non il movimento di Grillo, che la Repubblica velatamente taccia di pulsioni “incostituzionali”.
E Napolitano, travalicando sempre più il suo ruolo, usa la minaccia della crisi istituzionale profilatasi dopo le elezioni per spingere un PD lacerato e riottoso verso questa nuova edizione dell’unità nazionale e ricatta tutto il parlamento, paventando una precipitazione della crisi che si produrrebbe di fronte alle sue eventuali dimissioni se l’intimazione a favore del governissimo non fosse diligentemente seguita.
E non solo, perché, seppure attraverso l’escamotage dei documenti dei saggi, il presidente detta anche il programma del nuovo governo, fatto di ulteriore flessibilizzazione del lavoro, di privatizzazioni e liberalizzazioni, di riduzione delle tasse sulle imprtese, di tagli allo stato sociale e di controriforme autoritarie.
Le classi dominanti del nostro paese, e dietro di loro i potentati comunitari e internazionali, dopo la caduta della prima repubblica e del suo sistema partitico, dopo il fallimento del tentativo berlusconiano di coniugare la politica liberista con la difesa degli interessi di una ristretta fazione padronale e lo sgretolamento del bipolarismo della seconda repubblica, dopo la battuta d’arresto subita alle elezioni dal progetto centrista di Monti, preso atto di un PD totalmente sbrindellato dalla persistente crisi di leadership, si trovano di fronte al rischio di non disporre più di un interprete politico all’altezza delle necessità della fase.
Ecco dunque come il procedere speditamente verso una gestione presidenzialista corrisponda alle attuali necessità del padronato, come il travalicare la prassi e la lettera delle norme democratiche e dei ruoli istituzionali coincida con i bisogni della gestione delle politiche monetaristiche nel contesto di mancanza di consenso registrata con le elezioni.
In molti nei giorni scorsi hanno operato con successo perché prevalesse l’ipotesi delle “larghe intese”, lo ha fatto Napolitano, lo ha fatto la grande stampa “democratica”, lo hanno fatto fazioni e personalità interne al PD, lo ha fatto la Confindustria e almeno una parte dei sindacati confederali, e lo hanno fatto senza peritarsi di sbattere la porta in faccia al diffuso malessere della base del PD che riteneva di votare per un partito almeno antiberlusconiano, di aggravare la crisi di quel partito e di regalare un successo fino a poco tempo fa insperato al PdL (ormai primo nei sondaggi) e a Silvio Berlusconi, che ora può sperare di poter sostituire Napolitano al Quirinale quando quest’ultimo, se non altro per motivi di età, potrebbe dover passare la mano.
Quanto a noi e alle classi popolari, ci ritroviamo di nuovo nelle mani di un governo dell’austerità e del fiscal compact, magari con Mario Monti agli Esteri e perfino Maria Stella Gelmini all’Istruzione, pure dopo un risultato elettorale che aveva condannato tali politiche.
E ci ritroviamo con il ruolo di opposizione affidato al M5S e, immeritatamente, alla Lega Nord e a SEL.

Andrea Martini

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