giovedì 6 giugno 2013

Regole sindacali e patto sociale, respingiamolo!


di Andrea Martini
Camusso
Venerdì 31 maggio, le segreterie nazionali di Cgil, Cisl e Uil hanno stipulato con Confindustria un patto sulla rappresentanza, sulla rappresentatività e sulla esigibilità da parte padronale degli accordi.

Questo patto viola platelamente principi democratici e perfino principi costituzionali.
Esso, infatti, impedendo che le lavoratrici e i lavoratori siano liberi di scegliersi i propri rappresentanti. La partecipazione alla elezione dei rappresentanti sindacali “unitari” sarà aperta solo alle liste presentate da Cgil, Cisl e Uil o da altri sindacati che (come loro sanciscono solennemente con questo patto) rinuncino ad ogni azione di sciopero

Altri sindacati, che pure abbiano consensi importanti, ma che non siano firmatari di questo patto sociale e che quindi non intendano legarsi le mani e rinunciare a lottare per difendere gli interessi del mondo del lavoro, resteranno fuori dalla contrattazione collettiva nazionale.
Per anni si era denunciato che i sindacati firmatari dei contratti si fossero automaticamente attribuiti un terzo delle RSU. Oggi essi non si accontentano più di questo e si accaparrano d’ufficio il 100% della rappresentanza, a prescindere da quale sia il consenso di altre organizzazioni!
Ma Il patto non vuole solo impedire la presenza delle sigle più combattive: esso punta anche a impedire il dissenso interno alle stesse organizzazioni firmatarie. Infatti, secondo le clausole del patto, se un delegato non risulta più iscritto alla organizzazione sindacale con cui è stato eletto (se si è dimesso o è stato espulso per dissenso, appunto), egli decade da delegato. In questo modo si vuole impedire la presenza nelle rappresentanze di delegati e delegate combattive/i, poco disposti ad assumere lo spirito di collaborazione (se non di complicità) che ormai informa il rapporto tra i sindacati e le direzioni aziendali. E non solo: fecendoli decadere, queste delegate e questi delegati perdono le tutele garantite dallo Statuto dei diritti dei lavoratori e, quindi, restano esposti alle vendette dei padroni, peraltro oggi più facili anche grazie alla manomissione dell’articolo 18.
La decadenza della RSU “disobbediente” mostra come questi delegati non siano più i rappresentanti di tutti i lavoratori. Essi vengono ancora definiti RSU ma nei fatti il patto del 31 maggio li trasforma in RSA, cioè in rappresentanti (seppur eletti) degli apparati sindacali territoriali e nazionali. Era quello che Berlusconi (durante la vicenda contrassegnata dalla “disobbedienza” di Gianfranco Fini) voleva per i suoi deputati. Chiedeva infatti che si sancisse che un deputato eletto con una lista dovesse ferreamente obbedire alla linea del partito, fino a sancirne, in caso contrario, la decadenza.
Peraltro la stessa procedura per la contrattazione nazionale è tutt’altro che democratica.
Alla contrattazione viene ammessa solo la piattaforma che risulti maggioritaria nella misura del 50% più 1. Ma anche questa è una beffa. Infatti per la piattaforma si esclude ogni consultazione della base in ingresso e la maggioranza viene solo calcolata tenendo conto della rappresentatività relativa dei sindacati firmatari. Potrebbe essere utile fare un esempio: immaginiamo una categoria nazionale nella quale i tre sindacati confederali proponessero due piattaforme diverse (una la Cgil, l’altra Cisl e Uil) e un altra organizzazione sindacale non firmataria dell’intesa una terza piattaforma. Come detto, su queste piattaforme non si procede ad alcuna consultazione della base, né, tanto meno, a un referendum. Si valuteranno gli indicatori di “rappresentatività” definiti dall’intesa, risultato di un mix tra le percentuali degli iscritti e quelle ottenute nelle votazioni per le RSU. Il problema è che per calcolare questi indici si fa solo riferimento ai sindacati firmatari, facendo uguale a 100 la somma dei loro indicatori. Cioè, immaginiamo che il sindacato non firmatario abbia il 20% dei consensi, la Cgil il 36% e Cisl e Uil, sommate, il 44%. In realtà quel 20 % non firmatario verrebbe ignorato e il 36 % della Cgil diventerebbe automaticamente il 45% mentre il 44% di Cisl e Uil diventerebbe il 55%. Ecco come far diventare una minoranza automaticamente e prodigiosamente “maggioranza assoluta”., con un meccanismo molto simile al “porcellum” del parlamento.
I commentatori di sinistra favorevoli all’accordo (come Maurizio Landini, ma anche il Manifesto e tanti altri) sottolineano molto il fatto che l’accordo garantirebbe la verifica democratica del consenso delle lavoratrici e dei lavoratori sulle intese contrattuali. Non è vero.
La stessa Fiom, nel corso dell’ultimo decennio, ha sempre sottolineato che l’unica vera verifica possibile su un’intesa sia un referendum con la partecipazione di tutte le lavoratrici e i lavoratori interessati all’accordo. Tutte le altre categorie della Cgil e, complessivamente tutta la Cisl e la Uil hanno sempre contrapposto alla proposta del referendum quella della consultazione “certificata”, cioè di una serie di assemblee con votazione conclusiva per alzata di mano, introdotte, gestite, concluse e “certificate” da chi vuole che l’accordo sia approvato a tutti i costi. Ed è quello che l’accordo sancisce, quando parla di “consultazione certificata a maggioranza semplice”.
La questione del percorso per il contratto non è banale, perché, al di là della torsione maggioritaria della norma sulla definizione della piattaforma, l’esclusione anche formale dalla trattativa di ogni altra ipotesi di piattaforma contrattuale e l’assunzione di una sola, giudicata burocraticamente prevalente, fa sì che la conclusione della vertenza (e la stessa “consultazione certificata”) si trasformino facilmente in una operazione ricattatoria nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori. L’unico contratto possibile è quello sottoposto a consultazione: prendere o lasciare! La crisi e il ricatto occupazionale faranno il resto trasformando la consultazione (anche al di là delle manipolazioni degli apparati) in un plebiscito rassegnato.
Per ciò che riguarda il tema degli accordi aziendali, per i quali valgono le regole dell’accordo del 28 giugno 2011, non è previsto alcun voto delle lavoratrici e dei lavoratori ma sono validate dalla maggioranza della RSU, che ricordiamo sarà eletta solo su liste presentate dai sindacati firmatari. Con il che il cerchio si chiude.
Tutto ciò a garanzia del ruolo e del potere degli apparati sindacali.
Ma c’è ovviamente anche una parte tutta dedicata alla salvaguardia del potere padronale. Il patto infatti introduce una pesantissima limitazione al dissenso, con il cosiddetto principio di esigibilità voluto dalla Confindustria: i padroni, mentre peggiorano le condizioni dei lavoratori, pretendono anche che essi rinuncino alle lotte. E Cgil, Cisl e Uil sono d’accordo. E, per dare concretezza all’impegno sindacale alla rinuncia alle lotte, l’intesa prevede che nei prossimi contratti si inseriscano le sanzioni contro chi trasgredisce e sciopera. D’altra parte, proprio questa richiesta padronale di far rispettare gli accordi ai lavoratori e a chi li rappresenta rivela in modo palese come questa intesa si prefigga proprio di agevolare misure di incremento dello sfruttamento e della fatica delle lavoratrici e dei lavoratori, contratti che garantiscano a pieno il comando padronale e delle gerarchie aziendali, oggi di fronte alle flessibilità richieste dalla crisi, domani, se mai ci sarà una ripresa dei mercati, per un incremento generalizzato degli orari.
L’accordo, dunque, presentato come un testo di definizione sulle regole in realtà nasconde una vera e propria concretizzazione della volontà degli apparati sindacali di sostenere la borghesia italiana con un patto sociale. E gli industriali esultano (vedi l’intervista del “Sole 24 ore” al vicepresidente della Confindustria Stefano Dolcetta).
Le norme dell’accordo del 31 maggio, in fin dei conti, non differiscono molto da quelle che Marchionne, con la complicità di Fim Cisl e di Uilm Uil, definì per Pomigliano e Mirafiori giusto tre anni fa.
Per Susanna Camusso dunque non c’è molto di nuovo. D’altra parte anche nel 2010 la leader della Cgil propose alla Fiom di adeguarsi con una firma “tecnica” all’accordo risultato maggioritario nei referendum degli stabilimenti Fiat.
E’ singolare, però, che anche Maurizio Landini canti vittoria, proprio lui, leader della Fiom, che acquistò la sua grande popolarità proprio per l’atteggiamento combattivo e non rassegnato con cui allora respinse le intese che privavano la sua organizzazione dei propri diritti all’interno degli stabilimenti Fiat.
Ma questo riallineamento della direzione Fiom con la posizione della Confederazione è il risultato di un lungo percorso di riavvicinamento che oramai sta arrivando alla conclusione.
Questo patto, tra l’altro, non viene sottoposto a nessuna consultazione dei diretti e delle dirette interessate. Anzi, occorre dire che, per quanto riguarda la Cgil, non viene neanche sottoposto alla consultazione degli iscritti, trasgredendo formalmente alle regole dello statuto che recita, all’articolo 6: “Comunque, per la Cgil, in assenza del mandato di tutti i lavoratori, (… sulle piattaforme e sugli accordi), è vincolante il pronunciamento degli iscritti”. Talmente vincolante che non viene neanche sollecitato.
E’ quindi doppio il motivo per chiedere ai quadri sindacali combattivi di approfondire la conoscenza di questo ennesimo regalo ai padroni e alle burocrazie e di lavorare perché tutte  le lavoratrici e e tutti i lavoratori prendano coscienza della gravità dell’accordo e si mobilitino per respingerlo. Non ci sarà nessuna forma di consultazione, ma potranno farsi sentire con fermate, scioperi, raccolte di firme, richieste di assemblea, votazione di documenti critici…
E tutte le organizzazioni e le aree sindacali conflittuali dovranno costituire il più largo fronte di opposizione, contro un accordo che punta a impedirne l’azione, a tutto vantaggio del padronato e a discapito dei residui diritti dei lavoratori.
Andrea Martini

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