lunedì 26 novembre 2012

A proposito delle primarie


Un grande fenomeno di gestione dell'esistente in cui non va disprezzata la partecipazione di massa. Il problema è quale alternativa c'è in giro: l'unica sembra essere la democrazia dei movimenti
Salvatore Cannavò
Cosa dicono le primarie del centrosinistra o del Pd allargato? Più cose, diverse tra loro, alcune scontate, altre meno. La prima, scontata, e su cui non vogliamo dilungarci, è che sul piano dei contenuti le primarie sono praticamente nulle. Chi si ricorda il contenuto programmatico su cui vinse Prodi nel 2005, Veltroni nel 2007 o Bersani, segretario del Pd, nel 2009? Nessuno. Il contenuto programmatico delle primarie è il profilo dei candidati, il senso che restituiscono e la percezione del presente, e del futuro, che rimandano. In questo caso, si tratta di un esercizio funzionale al governo prossimo venturo, una forma del tutto interna alla politica tradizionale, con contenuti che, sostanzialmente, si assomigliano. Nessuno dei candidati, insomma, realizzerebbe una rottura di sistema. Se così fosse, del resto, le primarie non si terrebbero e la dinamica politica e sociale parlerebbe un altro linguaggio.

Sul piano del loro significato intrinseco, invece, il ballottaggio era piuttosto scontato e, per chi avesse naso per fiutare un po' di umori in giro, anche la partecipazione. Da questo punto di vista, sia Pierluigi Bersani che Matteo Renzi, sono stati piuttosto abili a giocare, ognuno nel proprio campo, le carte giuste per sollecitare la partecipazione e per costruire un appuntamento che facesse i conti con quella domanda di politica decente che si sente in giro. E ognuno dei due ha propagandato il messaggio che più gli interessava: "l'usato sicuro" per Bersani, la "novità" alias rottamazione, per Renzi. In questo senso hanno vinto entrambi, il primo perché riesce ad affermarsi anche con primarie che vanno oltre l'apparato del Pd, il secondo perché diventa una "stella" della politica italiana che terrà ancora banco non solo nella prossima settimana (sempre che non riesca nella sorpresa assoluta). Tra i due vincitori, però, a vincere un po' di più è Renzi. Perché è lui lo sfidante, è il più giovane, l'outsider che ha tutto da guadagnare da qualsiasi risultato. La vittoria in Toscana e in alcune città importanti, inoltre, dimostra che riesce ad avere presa nel corpo del Pd, dando voce a una quota significativa di elettori che vorrebbe scuotere e modificare il sistema di potere Democrat. Senza l'ausilio dell'apparato fatto di amministratori o della Cgil, inoltre, Renzi avrebbe forse superato lo stesso Bersani e questo i dirigenti del Pd lo sanno bene.
Le primarie danno in ogni caso un po' di vigore a un partito che finora era stato solo deriso. Nel panorama politico italiano il Pd è l'unico partito davvero nazionale, davvero radicato territorialmente e con un gruppo dirigente in grado di candidarsi al governo. A parte i "tecnici" e il centrismo neo-democristiano, o un manipolo di imprenditori desiderosi di prendersi lo Stato, non esistono alternative significative. Venti anni di berlusconismo, invece di sedimentare qualcosa, hanno fatto terra bruciata. Lo stesso Grillo, inoltre, deve dimostrare le "capacità" del suo movimento ed è comunque una realtà che senza il nome e la forza del suo ideatore-fondatore non avrebbe senso.
Per questa ragione, le primarie del Pd descrivono una contrapposizione possibile con Mario Monti e la prospettiva di un suo reincarico. Siamo nel campo del politichese, ovviamente, perché è chiaro che una contrapposizione Bersani (o Renzi) contro Monti avverrebbe su differenze minime. Chiunque vinca le prossime elezioni e sarà chiamato a governare non potrà discostarsi molto dall'agenda tracciata dall'Unione europea, la Bce, la politica del rigore. Il Pd potrebbe farlo con un po' più di attenzione alle istanze sociali, un Monti bis in forme più ciniche. Ma la sostanza sarebbe la stessa. Una politica di grande cambiamento, oggi, non ha gambe su cui marciare: per questo Vendola è il grande sconfitto di queste primarie. La sua percentuale analoga a quella raggiunta da Fausto Bertinotti nel 2005 dimostra, tra l'altro, come tutta la strada fatta fin qui abbia portato gli eredi di Rifondazione comunista al punto di partenza. E con posizioni indebolite dall'assenza di un partito reale.
Tutto questo però può comportare un'illusione ottica di cui si vedono già i primi effetti. L'illusione è che la prospettiva di una contesa tra Bersani da una parte (se al suo posto ci fosse Renzi sarebbe diverso ma non tanto) e Mario Monti dall'altra, spinga a sinistra il Pd e consenta alla sinistra residua di rientrare in gioco. E' quanto pensa, ecco l'effetto, Luigi De Magistrisa giudicare dall'intervista concessa al manifesto, ma anche da quanto si è letto nei giorni scorsi a proposito di una possibile candidatura Ingroia in grado di catalizzare anche il cartello "Cambiare si può" e Rifondazione comunista. Non è detto che le contorte strategia illustrate nelle varie interviste riescano, ma il fatto che siano avanzate dimostra quanta confusione ci sia in giro.
Le primarie, però, dovrebbero indurre tutti a una riflessione meno estemporanea sulla domanda di politica, le forme di partecipazione, i progetti di cambiamento. Le primarie servono a gestire l'esistente, non rappresentano uno strumento di cambiamento radicale, lo abbiamo già detto. Ma gli atteggiamenti di sufficienza con cui molti, a sinistra, guardano quella forma della politica - parliamo di milioni di persone qualunque, di anziani, lavoratori, lavoratrici, tutta gente che non c'entra nulla con gli apparati - sono privi di senso politico. Semplicemente, perché non offrono alternative interessanti. Beppe Grillo, infondo, si muove dentro l'esaltazione della Rete, il Pd riesce a rivitalizzarsi con le primarie. Quel che c'è a sinistra cosa propone?
L'unica cosa interessante è la democrazia dei movimenti o le forme spurie con cui questi si propongono. La resistenza in Val di Susa non può prescindere dalla quantità di incontri, assemblee e decisioni collettive che lì vengono prese. Anche la riposta studentesca dei giorni scorsi ha dietro una pratica di democrazia, ancora non affinata ma reale. La democrazia dei movimenti è un segno distintivo, un'appartenenza, e un modello. Ma oltre a questo ci sono solo chiacchiere, interviste sui giornali, riunioni al chiuso dei comitati centrali o congressi poco appassionanti (in qualunque luogo…). E tutto questo non è molto interessante o attraente.
Nel corso delle ultime settimane, se si guardano i grandi movimenti politici, le grandi dinamiche in grado di suscitare passioni o energie, ci accorgiamo che a sinistra della ventata di partecipazione del centrosinistra, a lato del fenomeno Grillo, contrapposto al governo dei tecnici, c'è stato solo il movimento degli studenti e degli insegnanti. Poco, certamente, per fondare un'opzione politica. Ma è quello il campo, l'appartenenza, l'identità in cui vive, oggi, la lenta impazienza.

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