giovedì 30 agosto 2012

La sinistra non può che stare con il popolo siriano


Intervista a Gilbert Achcar, intellettuale e militante marxista, profondo conoscitore del mondo arabo e dei suoi movimenti. "Le forze islamiche subiranno dei contraccolpi anche se ora sono maggioritarie"
Pubblichiamo di seguito un’intervista con Gilbert Achcar, docente presso la Scuola di studi orientali e africani dell’Università di Londra (Soas). L’intervista è stata realizzata in arabo da Oudai al-Zoubi per il quotidiano Al-Quds Al-Arabi che l’ha pubblicata il 25 agosto. La traduzione in francese è di Jihane Al Ali per conto del sito A l’Encontre. Nella presentazione Al-Quds Al-Arabi precisa : «Considerando che tutti coloro che si dichiarano di sinistra non possono che essere al fianco del popolo siriano nella lotta contro la tirannia, Gilbert Achcar sostiene che ormai la resistenza popolare è l’unica via che porta alla vittoria della rivoluzione siriana» (Redazione di A l’Encontre).
Alcuni militanti di sinistra temono l’islamizzazione della rivoluzione e questo li ha spinti a volte a lottare contro di essa o comunque a non sostenerla. Qual è il suo parere, in quanto marxista, sulla posizione da adottare di fronte alla rivoluzione siriana?
Gilbert Achcar: È normale che tutti coloro che credono nella democrazia – e la democrazia presuppone evidentemente la laicità – temono l’emergere di una forza religiosa che prende come fonte per la legislazione i testi sacri invece della volontà del popolo. Tutti temiamo che la grande sollevazione araba, su cui abbiamo riposto molte speranze, si trasformi in regressione reazionaria. C’è già un precedente storico: la rivoluzione iraniana che è iniziata come rivoluzione democratica ed è sfociata in uno Stato integralista. Questa paura è dunque naturale per chi crede nella democrazia.
Aggiungo a questo che le forze religiose sono quelle che più spesso in questo stadio prendono il potere, le forze nazionalistiche e di sinistra o sono troppo deboli o sono state molto indebolite. Ma, malgrado tutto, resto ottimista. Infatti c’è un’enorme differenza tra l’arrivo al potere di Khomeini in Iran e quello degli islamici nelle rivolte arabe. Khomeini era il capo della rivoluzione iraniana, era il suo vero dirigente, così non è per i movimenti islamici attuali. Essi non sono all’origine delle rivoluzioni arabe, vi si sono aggregati. Inoltre, come è possibile osservare in Tunisia e in Egitto, il loro arrivo al potere coincide con lo svilupparsi di uno spirito critico molto acuto tra la popolazione in generale e tra i giovani in particolare.
D’altronde non siamo di fronte a una rivoluzione compiuta, ma davanti a un processo rivoluzionario prolungato, che potrà durare ancora molti anni e che è mosso da contraddizioni socio-economiche che sono il maggior ostacolo allo sviluppo. Questi ostacoli sono legati alla natura profonda del sistema sociopolitico in atto e non solo alla corruzione visibile in superficie e additata da tutti. I movimenti islamici non hanno programmi seri per cambiare questo. Appare chiaro dalla lettura dei loro programmi che aderiscono alle ricette neoliberiste come i regimi al potere o quelli che sono stati rovesciati. Per questo motivo il processo proseguirà fino alla soluzione delle contraddizioni summenzionate.

Si può fare una lettura di classe della rivoluzione siriana?
Se ciò significa analizzare la rivoluzione siriana come una lotta di classe «pura», per esempio fra operai e borghesi, la mia risposta è no. La battaglia in Siria è contro una tirannia ereditaria: il movimento riunisce operai, contadini e piccoli borghesi e anche frange della borghesia. La rivoluzione siriana nella fase attuale è innanzitutto una rivoluzione democratica, nel quadro di una dinamica messa in moto dalle contraddizioni socio-economiche di cui ho già parlato. Risolvere queste contraddizioni sul lungo periodo sarà possibile solo eliminando la struttura di classe esistente, adottando delle politiche di sviluppo centrate sullo Stato, ma in un quadro democratico e non dittatoriale come è avvenuto negli anni ’60.
Quando il popolo si sarà sbarazzato della tirannia, le divisioni di classe inevitabilmente emergeranno nel processo rivoluzionario. Ma per il momento, è il popolo in tutte le sue componenti di classe che vuole liberarsi della dittatura. Chiunque si considera di sinistra non può che essere al fianco del popolo siriano nella lotta contro la tirannia.

Lei ha previsto l’inevitabile militarizzazione della rivoluzione fin dalla sua fase iniziale. Perché?
Guardi l’Egitto e la Tunisia dove hanno avuto buon esito delle rivoluzioni pacifiche. L’appello lanciato il 25 gennaio in Egitto era il risultato di grandi scioperi operai e di proteste politiche fatte da movimenti come Kefaya, con una forte presenza in piazza delle forze di opposizione religiose organizzate. Le manifestazioni del 25 gennaio hanno certamente dato fuoco alle polveri. In Siria, invece, la fortissima repressione è stata la ragione del ritardo dell’estensione del movimento alle principali città del paese, che non avevano vissuto alcuna accumulazione precedente di scioperi e proteste come nel caso dell’Egitto o della Tunisia.
Questo ritardo non era dovuto al fatto che queste città fossero dalla parte del regime, come è stato detto. La ragione del ritardo dello scoppio della rivolta di Aleppo e Damasco non è tanto dovuta all’importanza della base sociale del regime quanto al massiccio dispiegamento delle forze di repressione e all’assenza di esperienze di lotta precedenti.
Arrivo ora alla questione della militarizzazione. Non sono un sostenitore della militarizzazione, preferisco i processi rivoluzionari pacifici. La militarizzazione genera una distruzione enorme, spinge verso una degenerazione dell’opposizione e minaccia la nascente democrazia, dato che le organizzazioni militari raramente sono democratiche.
Tuttavia – fin dall’inizio, come lei ha sottolineato – ho sostenuto che la militarizzazione della rivoluzione siriane era inevitabile. Con l’inizio della formazione dei gruppi dell’Esercito siriano libero, alcuni membri del Consiglio nazionale siriano hanno fatto appello per un intervento straniero diretto che, nelle loro intenzioni, avrebbe permesso di controllare la militarizzazione. Altri – in particolare i membri del Comitato nazionale di coordinamento – hanno lanciato un appello affinché il movimento si limitasse alla lotta pacifica, condannando la militarizzazione.
Dal mio punto di vista, queste due posizioni erano il frutto di una carenza strategica. Il regime siriano e sostanzialmente diverso da quello dell’Egitto e della Tunisia. In Siria, come precedentemente in Libia, esiste un legame organico tra l’istituzione militare e la famiglia regnante, mentre in Egitto e in Tunisia, Mubarak e Ben Ali provenivano dall’istituzione militare ma non ne erano gli artefici. La riorganizzazione dello Stato, in particolare le forze armate, da parte di Gheddafi e Hafez el-Assad ha reso l’abbattimento pacifico dei loro regimi del tutto illusorio.
Hafez el-Assad ha ricostruito le forze armate siriane su ben note basi confessionali. E facendo questa constatazione, non condanniamo assolutamente una comunità religiosa specifica [alauita]; denunciamo, piuttosto, il confessionalismo del regime. Non si tratta di sostituire un confessionalismo con un altro, ma di ricostruire lo Stato su basi non confessionali.
Non è possibile scommettere sull’abbandono del tiranno da parte delle unità d’élite in paesi come la Libia o la Siria. Rovesciare pacificamente il regime in paesi come questi è impossibile. Le rivoluzioni, come le lotte di liberazione nazionale, non possono tutte concludersi in modo pacifico. La strategia non si definisce in funzione di ciò che sarebbe sperabile, ma in funzione della natura dello Stato. Per questa ragione ho sostenuto fin dall’inizio che il rovesciamento del regime siriano non potrà realizzarsi che attraverso la lotta armata.
Invece, l’appello per un intervento straniero è un grave errore. Ho elencato i rischi che creerebbe un simile intervento in un mio contributo durante una riunione dell’opposizione siriana a Stoccolma e poi nell’articolo pubblicato in seguito dal giornale Al Akhbar di Beirut. Alcuni di questi rischi hanno spinto gli stessi paesi occidentali a rifiutare immediatamente la militarizzazione. I dirigenti occidentali oggi giudicano molto negativamente l’espansione dell’organizzazione Al-Qaida in Siria; sono molto preoccupati. Se ora iniziano a intravedere la possibilità di un intervento diretto, non è certamente per amore del popolo siriano, ma unicamente in ragione del loro timore di Al-Qaida e di gruppi simili. Anche in Libia un uguale timore per la deriva della situazione e il tentativo di prendere il controllo del processo di cambiamento ha motivato il loro intervento. Ma il tentativo è fallito.
Esiste una terza illusione riguardo la Siria, diffusa dagli Stati Uniti: la cosiddetta soluzione yemenita alla quale ha fatto appello Obama, insieme ad altri. Questa consisterebbe nel passare attraverso un accordo con il principale sostenitore di Assad, la Russia, affinché lo abbandoni come i sostenitori sauditi hanno abbandonato Ali Abdallah Saleh. È una pura illusione. Come ho già detto, gli apparati centrali dello Stato sono organicamente legati alla famiglia regnante in Siria e sono costruiti su basi confessionali. È impensabile che abbandonino il potere senza una sconfitta sul terreno, anche si arrivasse ad un’uscita di scena di Bashar el-Assad come è accaduto con Ali Abdallah Saleh in Yemen.
Queste tre illusioni sono il risultato di una carenza strategica nella comprensione della realtà e delle differenze tra la Siria, da un lato, l’Egitto, la Tunisia e lo stesso Yemen dall’altro. Questa carenza ha fatto sì che l’opposizione non sapesse prendere l’iniziativa di organizzare la militarizzazione su delle basi sane. Alla fine dei conti, la democrazia in Siria vincerà solo spezzando l’apparato del potere, ossia smantellando le forze armate per ricostruirle su delle basi che non siano confessionali né dittatoriali.

Alcuni pensano che la militarizzazione porti alla guerra civile. La Siria è entrata in guerra civile?
Sicuramente, da molti mesi. Ma la guerra civile non significa guerra confessionale. La guerra civile designa ogni conflitto armato che contrappone parti della stessa società, come nel caso della guerra civile spagnola negli anni 30, o in Francia dopo la rivoluzione del 1789 o in Russia dopo quella del 1917. Le guerre civili non sono necessariamente confessionali o religiose. Quando sostenevo, più di un anno fa, che la Siria andava inevitabilmente verso la guerra civile, non intendevo con questo una guerra confessionale. Volevo solo sottolineare l’inevitabilità dello scontro militare senza il quale il regime non avrebbe potuto essere abbattuto.
Inoltre, il regime ha cercato, e cerca ancora, di far esplodere una guerra confessionale, aiutato in questo da alcune forze reazionarie interne all’opposizione. Abbiamo visto come, fin dai primi giorni, il regime ha attribuito la rivolta a dei gruppi salafiti o ad Al-Qaida. Questa propaganda del regime lanciava due messaggi: uno indirizzato alle minoranze e l’altro ai sunniti normali che rifiutano il wahhabismo, senza dimenticare il terzo messaggio rivolto ai paesi occidentali. In realtà, più il conflitto si prolunga, più le forze confessionali si rafforzano. È indispensabile impedire il prevalere della logica confessionale. Per questo l’opposizione deve adottare una posizione ferma contro le posizioni confessionali.
D’altro canto, l’appello per un movimento assolutamente pacifico fatto con il pretesto di mettere in guardia dal confessionalismo, come hanno fatto alcuni esponenti della sinistra siriana, è stato accompagnato da un appello al dialogo con il regime. Salta immediatamente agli occhi che questi appelli non avranno alcun risultato. Le forze di sinistra avrebbero dovuto adottare una posizione radicale fin dall’inizio del movimento, avrebbero dovuto chiamare al rovesciamento del regime e non ad un illusorio dialogo con esso. Malgrado il mio profondo rispetto per alcuni militanti della sinistra siriana, penso che questi appelli erano, e restano, delle prediche nel deserto.

Per un altro verso, la militarizzazione non porta all’eliminazione del carattere popolare pacifico della rivoluzione?
Ho già avuto occasione di dire che il dilemma strategico principale della rivoluzione siriana era quello di riuscire a combinare il movimento pacifico di massa con la lotta armata. Non è concepibile, di fronte a un regime come quello siriano, che la lotta pacifica possa proseguire all’infinito. Ciò equivarrebbe a sperare che i manifestanti pacifici continuino a farsi sgozzare come agnelli, giorno dopo giorno.
È il classico dilemma delle rivoluzioni popolari contro dei regimi tirannici che non esitano ad ammazzare. Allora si impone la creazione di un braccio armato della rivoluzione per proteggere il movimento pacifico e attuare una guerriglia contro le forze del potere e le sue milizie omicide (shabbiha).
Lo scivolamento verso una guerra confessionale porterebbe, invece, al prolungamento del conflitto e all’allargamento della base del regime di Assad piuttosto che a un suo restringimento. La soluzione risiede nel costruire delle reti di resistenza popolare intorno ad una carta democratica che rifiuti chiaramente il confessionalismo, di cui già vediamo l’inizio. Questo è cruciale per il futuro della rivoluzione e dello Stato in Siria.

Traduzione dalla versione francese, di Cinzia Nachira

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