giovedì 30 maggio 2013

Da Bologna riparte la lotta per la scuola pubblica



Clicca sull'immagine per ingrandire
Clicca sull’immagine per ingrandire
di Francesco Locantore
Il referendum consultivo di Bologna ha avuto un risultato netto e incontrovertibile: l’opzione A, quella per cui il comune dovrebbe smettere di finanziare le scuole dell’infanzia private, ha ottenuto il 59% dei consensi (oltre 50mila voti), contro il 41% (circa 35mila voti) dell’opzione B, secondo cui il comune dovrebbe continuare a spendere circa un milione di euro l’anno per gli asili privati parificati.
Il fronte dei perdenti è molto vasto, tutti i partiti che sostengono il governo Letta (nonché la Lega Nord) si erano schierati per l’opzione B, in particolare si era esposto il Partito Democratico, storicamente al governo della città. Il sindaco Virginio Merola, eletto nel 2011 con una coalizione di centrosinistra che comprende PD, Sel, Federazione della Sinistra, IdV e socialisti riformisti, si è espresso fortemente per l’opzione B, invitando i cittadini a non disertare le urne, ma anzi a confermare esplicitamente l’orientamento tenuto dalla giunta comunale. Sel e il Prc si sono dissociati dall’orientamento del sindaco che pure avevano contribuito ad eleggere e – nel caso di Sel – che continua a sostenere in consiglio comunale e nella giunta cittadina. A dare man forte al PD sono scesi in campo intellettuali come il professor Zamagni e politici del calibro di Romano Prodi, fresco di bocciatura dall’elezione a presidente della Repubblica, oltre che i poteri forti della Confindustria, la Cisl, la Fism – federazione delle scuole materne (sic!) cattoliche – la compagnia delle Opere, la curia e lo stesso Papa Francesco, che ci ha tenuto a sottolineare il ruolo educativo delle scuole cattoliche e a rivendicarne un adeguato riconoscimento.

La Flc-Cgil ha sostenuto la campagna per l’opzione A, ma la Camusso ci ha tenuto a non contrariare il Partito Democratico non schierando tutta la Cgil a sostegno di una battaglia di democrazia e di civiltà. Non c’è da stupirsi che il Partito Democratico sia stato tra i sostenitori più convinti del finanziamento alle scuole private. La legge sulla parità scolastica (legge 62 del 2000) fu una proposta del governo D’Alema, ma già nel 1998 il ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer aveva superato il tabù costituzionale del finanziamento alle scuole private, al fine di sperimentare il sistema dell’autonomia scolastica. Praticamente dovunque amministra, il PD finanzia le scuole private cattoliche. A Roma, dove la situazione delle famiglie che non riescono a trovare posti negli asili pubblici statali e comunali è ben più grave di quella bolognese (il Coordinamento delle scuole di Roma sta conducendo un’inchiesta proprio in queste settimane), i finanziamenti alle strutture private sono cominciati ben prima di Alemanno, con le amministrazioni di Rutelli e Veltroni.
I perdenti hanno sottolineato il dato dello scarso afflusso alle urne, e con loro la stampa e i mezzi di comunicazione asserviti (leggi l’articolo di Antonio Moscato). La disaffezione al voto è una tendenza generale in questo periodo storico, e non stupisce che riguardi non solo le consultazioni politiche ma anche i referendum, visto che la volontà dei cittadini viene sistematicamente disattesa dalle istituzioni politiche, come è ancora oggi per quanto riguarda la ripubblicizzazione del servizio idrico. Tanto più che il referendum di Bologna aveva una valenza solo consultiva, non potendo abrogare direttamente le norme che consentono il finanziamento delle scuole private. Il sindaco infatti non ha tardato a dichiarare che non terrà conto della volontà popolare, sostenendo ipocritamente che chi non ha votato sarebbe favorevole alla prosecuzione dei finanziamenti agli asili privati. Del resto lo aveva già fatto il sindaco Walter Vitali nel 1997, eludendo la volontà popolare che si era pronunciata per lo stop alla privatizzazione delle farmacie comunali, con una partecipazione al voto anche superiore a quella di domenica scorsa. Inoltre si consideri il fatto che la questione sottoposta a consultazione riguardava direttamente molti meno cittadini di quelli che si sono recati alle urne, e molti non sono riusciti a percepire la portata generale della battaglia per la scuola pubblica, disorientati anche dall’orientamento delle organizzazioni maggioritarie della sinistra.
Chi vince è invece il comitato Articolo 33, nato dall’iniziativa di alcuni cittadini, dopo aver scoperto che mentre ai loro figli era negato l’accesso alle scuole dell’infanzia comunali e statali per mancanza di posti, il comune spendeva oltre un milione di euro l’anno per finanziare le scuole dell’infanzia private (quasi tutte cattoliche). Con quei soldi si sarebbero potuti aumentare i posti nelle strutture pubbliche, laiche e gratuite, anziché costringere le famiglie a pagare le rette e a dover affidare i propri figli ad una educazione impostata su valori non necessariamente condivisi. Il Re è nudo! La Costituzione è stata aggirata dalla legge sulla parità, che definisce “pubbliche” anche le scuole non statali, e dai discorsi dei politici come Francesca Puglisi, responsabile scuola del PD, che difende i finanziamenti alle scuole private perché accolgono bambini e studenti che altrimenti rimarrebbero fuori. E se invece di tagliare i fondi alla scuola pubblica statale le si restituissero i soldi che le sono stati sottratti in questi anni? Il referendum bolognese ha indicato una strada che non riguarda solo Bologna, né solo le scuole dell’infanzia.
Non è che l’inizio, si diceva nel maggio francese. La vittoria di Bologna apre una battaglia impegnativa anziché chiudere la questione della privatizzazione della scuola. Anche nella stessa Bologna i cittadini che hanno votato per l’opzione A devono essere ben coscienti che non sarà bastato recarsi alle urne per ottenere i propri diritti. Tuttavia la questione riguarda non solo Bologna, è necessario abrogare la legge 62/2000 e invertire la tendenza alla dismissione e alla privatizzazione della scuola pubblica. Non è un caso che la scuola pubblica venga tagliata e ridotta in condizioni pietose, mentre contemporaneamente si continua a finanziare in modo sempre più cospicuo le scuole private. Si vuole arrivare a mettere sul mercato il diritto all’istruzione, differenziando una scuola pubblica in cui i figli delle lavoratrici e dei lavoratori vengono parcheggiati per qualche ora al mattino, nel migliore dei casi ottengono un’istruzione di base, mentre chi può permettersi un’istruzione degna di questo nome deve rivolgersi agli istituti privati. Ad oggi le scuole private sono per lo più diplomifici per garantire un titolo a chi può comprarlo, ma potrebbero diventare un’alternativa di mercato nel fornire un’istruzione di qualità, anche se priva del pluralismo che caratterizza l’istruzione pubblica.
L’attacco e il tentativo di divisione dei docenti va pure in questa direzione. Già oggi chi lavora nelle scuole private lo fa in condizioni di supersfruttamento, spesso con contratti non regolari, pur di acquisire punteggio per poter insegnare domani nella scuola pubblica. Domani però i docenti potrebbero essere differenziati anche nella scuola pubblica in base al “merito”, cioè in base ai risultati dei propri alunni nei quiz dell’Invalsi, in base al gradimento del dirigente scolastico o di una commissione di valutazione da lui presieduta, in base al numero di ore di lezione frontale, come già oggi ripropone il PD, in base alla “qualità” della scuola in cui si trovano ad insegnare, cioè a quanto possono permettersi di pagare gli utenti della scuola stessa. Il mancato rinnovo del contratto nazionale della scuola, il congelamento degli scatti di anzianità, la dismissione delle graduatorie dei precari, stanno preparando il terreno ad una concezione privatistica del lavoro docente e all’individualizzazione del rapporto contrattuale. La privatizzazione del sistema dell’istruzione comporta la possibilità per ogni scuola di scegliersi i propri insegnanti, in base al proprio indirizzo formativo e culturale, e alla propria capacità di spendere. Questo era l’intento del disegno di legge Aprea, prima modificato, poi abbandonato nella scorsa legislatura, grazie alle lotte di studenti e lavoratori.
L’articolo 33 della Costituzione prevede che i privati possano istituire scuole senza oneri per lo Stato, mentre è lo Stato che deve istituire scuole di ogni ordine e grado in modo da garantire a tutti i cittadini il diritto a raggiungere i massimi gradi dell’istruzione. Questo è un diritto che, sebbene scritto nella carta costituzionale, in Italia è ancora tutto da conquistare. Il movimento delle scuole dell’autunno scorso ha frenato momentaneamente i progetti privatistici del governo Monti. Non c’è da ritenere che il governo Letta abbia un indirizzo diverso in merito, visto che la stessa ministra Carrozza si era espressa per l’opzione B. Il reinvestimento massiccio di risorse sulla scuola pubblica statale cozza contro i diktat del Fiscal Compact e dell’austerità europea, di cui questo stesso governo è promotore. E’ necessario quindi che il movimento per la scuola pubblica si prepari a fronteggiare ulteriori attacchi e ulteriori tagli nei prossimi mesi, a partire da quelli condotti contro chi lavora e insegna nelle scuole pubbliche statali, contro gli studenti che sono sottomessi a ridicoli quiz invece di avere garantita una formazione critica e pluralista.
Il risultato di Bologna restituisce il coraggio di resistere all’ondata liberista, ci dice ancora una volta che è possibile vincere con la partecipazione diretta di migliaia di cittadini e lavoratori. La battaglia per la scuola pubblica continua…

Nessun commento: