martedì 5 febbraio 2013

Occupy Messina, prove di democrazia comunarda


L'occupazione del Teatro in Fiera “Pinelli” nella città dello Stretto: la denuncia delle speculazioni sul porto ma soprattutto l'esperimento di un'altra forma di gestione degli spazi pubblici

Gianfranco Ferraro
MESSINA. È una grande scritta a caratteri cubitali, “Ekklesiasterion”, a dominare sul palco. Proprio come nelle antiche poleis greche, dove il luogo delle “assemblee” cittadine tendeva a coincidere con gli spazi dei teatri, anche a Messina gli occupanti del vecchio Teatro in Fiera, ribattezzato “Pinelli” in ricordo dell'anarchico “suicidato”, provano da più di un mese a restituire alla città in cui abitano uno spazio in disuso, possibile preda di speculazioni finanziarie private, facendone un crocevia di assemblee, concerti e spettacoli gratuiti.
L'autogestione del teatro messinese nasce quasi per caso, il 15 dicembre scorso, come esito di un presidio antifascista. Ma i primi ad entrare nello spazio, chiuso da ben diciassette anni, si trovano davanti ad uno spettacolo fin troppo simbolico, per una città ad altissimo rischio sismico e ormai devastata dalla speculazione cementizia: una platea completamente invasa dalle macerie del soffitto, crollato chissà quando nell'indifferenza delle istituzioni locali.

Eppure, l'occupazione resiste e nel giro di pochi giorni riesce addirittura ad imporsi all'ordine del giorno del dibattito pubblico cittadino, ricevendo addirittura la visita del Prefetto e, proprio l'ultimo giorno dell'anno, quella del neoeletto presidente della regione Sicilia Crocetta, in cerca anche lui di riconoscimenti vista la maggioranza risicata di cui gode a Palazzo dei Normanni, appesa ai niet del movimento di Grillo, a Messina vicino al movimento No-Ponte come a Niscemi a quello No-Muos.
Ma è difficile comprendere il consenso diffuso che l'occupazione, o meglio, la “liberazione”, come dicono gli occupanti, acquista nella città dello Stretto, rispetto ad altre cruciali esperienze come quella del “Valle” di Roma, del “Garibaldi” di Palermo, del “Coppola” di Catania e del “Rossi” di Pisa, se non si spiega cosa il teatro in Fiera rappresenta davvero per i messinesi.

Con i suoi 30 chilometri di costa, il comune peloritano dovrebbe possedere una economia in rapporto più che stretto con il mare: ma così non è. In realtà, con la progressiva svendita ai privati della gestione pubblica del traghettamento con la Calabria – 'u continenti, come si dice da queste parti –, e a parte l'occasionale attività crocieristica e quel poco di economia derivata dalla pesca di lusso (il pescespada, rivenduto a peso d'oro nei mercati giapponesi), la città è stata progressivamente, negli ultimi anni, espropriata del suo rapporto con il mare. Anche e innanzitutto nei suoi spazi fisici. Basti pensare che il porto naturale a forma di falce, un vero e proprio lago in centro-città dove i messinesi andavano a pescare e a mangiarsi la “focaccia” fino a pochi anni fa, è stato chiuso al traffico pedonale dalle normative europee, e tutta la zona cosiddetta “falcata” è ancora occupata da una base della Marina Militare. Allo stesso modo, la stessa zona dove si sviluppa l'esperienza del “Teatro Pinelli” è stata occupata fino allo scorso anno da un Ente pubblico peraltro commissariato dal governo regionale, l'Ente Fiera di Messina, che negli anni '60 e '70 si trovava a gestire una delle Fiere campionarie italiane più importanti del Paese, alla quale la Rai dedicava addirittura una specifica programmazione durante la prima metà di agosto.
A quei fasti della “città giardino”, ricordati ormai con nostalgia dalle generazioni più anziane, si è progressivamente sostituito l'anonimo grigiore di una cittadella di ben 40 mila metri quadri di cemento rigorosamente interdetto alla cittadinanza da imponenti cancellate che anche qui impediscono un accesso al mare. Ed è esattamente qui che il Teatro “Pinelli” ha fatto la sua comparsa, convogliando tra l'altro in assemblea, alla conclusione di un recente corteo cittadino, tutte le vertenze lavorative che stanno letteralmente soffocando la città dello Stretto.
Nessun serio piano di rilancio economico è stato infatti anche solo ipotizzato dalle ultime amministrazioni comunali, sia di centro-destra che di centro-sinistra, dominate dagli interessi trasversali che ruotavano intorno a Domenico Nania (PdL) o a quelle del dominus Pd della città Francantonio Genovese, strettamente legato ai monopolisti del traghettamento privato e all'imprenditoria edilizia, e oggi nell'occhio del ciclone per uno scandalo riguardante la gestione dei fondi della formazione professionale siciliana.

L'occupazione del “Pinelli” sta così riuscendo lì dove l'attivismo storico dello Stretto – ad esempio quello della rete No-Ponte – fin qui ha avuto non poche difficoltà: a condensare cioè le istanze di una città tramortita e depredata selvaggiamente della sua stessa anima, il rapporto con il mare, da logiche di potere familistiche e massoniche, per lo meno di fatto (il famoso “verminaio”, come venne chiamato l'intreccio di potere peloritano, durante la visita della Commissione Antimafia, alla fine degli anni '90). Ed è su questa pericolosa “ferita”, quella della gestione finanziaria del rapporto tra la città e la sua “anima” marittima, che gli occupanti del Pinelli si stanno esplicitamente posizionando. È infatti sul terreno del Waterfront, sulla gestione dell'affaccio a mare della città, che si giocherà nei prossimi anni la grande partita di una città che, se non verrà forse violentata dalla costruzione del Ponte, rischia di essere comunque calpestata e resa semplice “funzione” dalle mire degli speculatori e dalle cosiddette “opere compensative” programmate dalla società “Stretto di Messina”, di cui la rete No-Ponte ha chiesto per anni insistentemente e senza risultato la liquidazione.
Proprio sul Waterfront si gioca cioè quella complessa guerra di posizione che in attesa delle prossime elezioni viene combattuta sottotraccia tra governo regionale, amministrazioni locali e altre entità interessate. E non è un caso infatti che, dopo un iniziale riconoscimento, forse inevitabile visto il consenso, sia stata proprio l'Autorità Portuale di Messina, ente gestore dell'area oggi occupata del Teatro, a prendere una posizione via via più rigida. “Sapevamo di posizionarci su questa ferita, sull'intenzione di aprire ai privati l'affaccio a mare” ammette infatti Claudio Risitano del “Pinelli”. “E in questo modo, con questa prima occupazione, ci siamo dati per lo meno uno spazio di manovra”.
Ed è in questo uso consapevole e strategico dello strumento dell'occupazione, nella sua capacità di prendere posizione dentro una ferita non solo culturale ma civile della città, che l'esperienza del Pinelli di Messina, adesso allargata ad un altro padiglione della cittadella fieristica, l'ex “Irrera a mare”, affacciato proprio all'imboccatura del Porto, sembra travalicare l'alveo in cui finora ha nuotato il movimento inedito, per lo meno in Italia, dei teatri occupati. Del resto, proprio a Messina si trovano in questi giorni molti occupanti del “Valle” di Roma. “Sono tutte esperienze che parlano della possibilità di usare la cultura e l'arte come una cosa viva – prosegue Claudio – esperienze che appaiono forse non casualmente durante una fase necrofila dell'attuale capitalismo, con la conseguente compressione della libertà delle persone e la riduzione mercantile della cultura”.
Né solo teatro occupato, né centro sociale, il “Comitato aperto di promozione sociale Teatro in Fiera Pinelli – Centro per l'arte, la cultura e la ricerca – Bene comune” può oggi annunciare la presenza a Messina di un'Occupywaterfront, cioè di una esperienza di riattivazione comune di luoghi strappati al pubblico uso, sulla falsa riga delle Occupy Wall Street americane o degli Indignados spagnoli. “Abbiamo capito che possiamo essere non minoritari, ma maggioritari nella società” dicono. Incassato il sostegno di Camilleri e di Moni Ovadia, i giovani, e i meno giovani, del Comitato mettono al centro della loro esperienza politica la forma assembleare, una forma della gestione degli spazi “porosa, aperta alla città”, coscienti di far giocare alla parola “bene comune” una partita imprevista appena fino a qualche mese fa. E non solo a Messina.
Si tratta infatti di rendere possibile una “diversa” istituzionalizzazione delle esperienze di riappropriazionedegli spazi pubblici. Di capire cioè come un luogo pubblico possa essere sottratto alla gestione privatistica o alla concessione, altrettato occlusiva, di enti pubblici, per seguire una gestione compiutamente democratica e altre forme, democraticamente dirette, di economia. Non è un caso se, proprio su questi temi, gli occupanti del Pinelli hanno deciso di inaugurare il loro “Cantiere costituente” venerdì 1 febbraio, con la presenza del giurista Ugo Mattei.
Una nuova forma di istituzione democratica, ancorata al territorio, capace di autocritica, federativamente connessa con altre simili esperienze: è questa la sfida lanciata oggi dalle rive dello Stretto, ed è in questo senso che l'uso in comune di un teatro riaperto con la forza diventa, per gli occupanti di Messina, solo il primo passo di una pratica radicale ma non per questo minoritaria, “comunarda”, come dicono, della democrazia.

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